Sangue, sudore e vinile: il documentario su Neurot, Hydra Head e Constellation

Blood Sweat + Vinyl: DIY in the 21st Century

Quanto segue non ha la presunzione di essere né un live report né un’intervista di quelle che si leggono comunemente sulle riviste o sui siti di settore. Vuole essere solo un contributo portato all’attenzione dei lettori italiani su una gran bella realtà che chi scrive ha conosciuto durante un soggiorno in California nella città di San Francisco. Non essendo un giornalista e non avendo mai fatto un lavoro del genere, mi limito a raccontare brevemente un concerto e a trascrivere parola per parola quanto emerso da una lunga chiacchierata con il regista di questo splendido documentario.

Il 15 Ottobre 2011 ero all’Oakland Metro Operahouse, a due passi da San Francisco, per la premiere del documentario “Blood, sweat + vinyl: the DIY in the 21st Century”, realizzato da Kenneth Thomas. Mi sono presentato al locale con largo anticipo, dal momento che la protesta “Occupy Oakland” mi aveva fatto allontanare da Downtown con una certa rapidità. Dopo un’oretta di chiacchiere con dei ragazzi provenienti dall’Oregon, siamo entrati e ci siamo trovati davanti il merch desk più ricco che abbia mai visto. Le tre etichette coinvolte nel documentario (Neurot, Hydea Head e Constellation) mettevano in mostra tutti i loro lavori più belli e interessanti: perdersi in quel mare di dischi non è stato assolutamente difficile.

Hanno aperto la serata gli Ides of Gemini, freschi di firma per Neurot Recordings. Tempi dilatatissimi, voce eterea femminile e atmosfere rarefatte per un set davvero molto intenso e coinvolgente. Seconda band: Oxbow. Autori di un set acustico al centro del locale prima di un concerto memorabile, me li avevano sempre descritti come una live band di altissimo livello, ma mai mi sarei aspettato una cosa del genere. La loro idea di musica, trasmessa dal vivo, è qualcosa di unico e indescrivibile. La serata si è conclusa con il set degli Evangelista (Carla Bozulich), che purtroppo non sono riuscito a vedere data l’ora tarda e la necessità di trovare un mezzo per poter tornare a casa. Fra un’esibizione e l’altra c’è stata la proiezione di ognuna delle tre parti del documentario. Tutti seduti in silenzio ad ascoltare interviste, report e stralci di concerti di band che hanno segnato (e stanno segnando) un’epoca.

Nei giorni successivi ho incontrato Kenneth in città e ci siamo fermati a parlare a lungo del suo progetto. Quanto segue è ciò che è emerso dalla chiacchierata.

Blood Sweat + Vinyl: Kenneth e Alessio

Ciao Kenneth, parlami del progetto. Di chi è stata l’idea, quando è saltata fuori, quante persone ci hanno lavorato e se è stato difficile reperire tutto quel materiale e metterlo insieme…

Kenneth Thomas: L’idea è stata mia, mi è venuta perché fra gli anni 2000 e 2005 c’erano un sacco di documentari musicali fatti soprattutto sul passato, basati su band degli anni Settanta e Ottanta come Black Flag, Ramones e a tutto il movimento che ruotava loro attorno. Ci tengo a precisare che quel periodo è stato di grande ispirazione per me, ma nessuno ai tempi si immaginava di quanto avrebbe ispirato anche altre realtà esistenti oggi. L’idea prettamente punk di avviare una tua etichetta, senza ambizioni di arrivare a firmare per una major e fare tutto per conto tuo (altrimenti non si chiamerebbe DIY, Do It Yourself, ndr) la ritroviamo oggi in band quali Neurosis, Isis o Godspeed You! Black Emperor. Io sentivo che qualcuno doveva fare qualcosa per parlare in maniera accurata di cosa sta accadendo oggi a quegli ideali DIY. Credo che band come Neurosis, Isis, Godspeed You! Black Emperor e tutte le band sotto le tre rispettive etichette siano importanti per l’evoluzione musicale così come lo sono stati Black Flag e Circle Jerks. Di quelle band ormai passate s’è sentito parlare tantissime volte, era ora che qualcuno facesse la stessa cosa per tutto il movimento nato attorno a queste tre etichette. Quel qualcuno sono stato io (ride, ndr). Le cose cambiano molto velocemente e detesto l’idea che le persone si possano velocemente dimenticare di tutte queste band incredibili.

L’idea mi è venuta nel 2005, stavo guardando i miei dischi che mi sono detto “Wow, ho un sacco di dischi provenienti da tre etichette, Neurot, Hydra Head e Constellation!”. Ognuna di queste etichette ha un’estetica propria e un “look” riconoscibile. Ci sono moltissime differenze fra di esse sia a livello di grafiche sia musicale, ma tutte e tre sono accomunate dal fatto di operare secondo la stessa filosofia.

Il tutto ebbe inizio una sera, quando ancora vivevo a Los Angeles e i Pelican suonavano in città. Arrivai in questo localino pieno di fumo, piccolo e buio, chiamato The Mountain Bar e incontrai Larry, il batterista. Senza sperare in chissà cosa gli buttai lì l’idea del documentario e lui mi rispose che Aaron Turner era lì con loro. Ebbi così la possibilità di parlare direttamente con lui. Qualche giorno dopo gli spedii via mail l’idea e la sua risposta fu: “Great!”. Gli proposi di filmare un loro concerto (degli Isis, ndr) a Los Angeles la settimana successiva e lui accettò. Gli dissi: “Facciamo così: io filmo il vostro concerto il prossimo 5 Novembre 2005 con tre videocamere e un registratore e voi accettate di farvi fare un’intervista”. Rispose di sì. A quel punto gli Isis usarono le riprese per un dvd che uscì l’anno successivo (Clearing The Eye) e io utilizzai le riprese come punto di partenza per il mio lavoro.

Il sottotitolo del documentario è “Il DIY nel ventunesimo secolo”. Sappiamo che queste tre etichette – che portano avanti la loro attività secondo una filosofia DIY – sono diventate dei punti di riferimento per questo genere di musica. Come riescono a combinare questi due aspetti e come si sono comportate nei tuoi confronti?

Ogni persona che ho incontrato è stata estremamente disponibile nei miei confronti. Credo soprattutto perché queste tre etichette formano comunità molto coese e c’è un alto grado di fiducia e rispetto reciproco. Una volta intervistato Aaron Turner degli Isis fui in grado di contattare i membri dei Cave In, che sarebbero venuti a suonare in città qualche mese dopo. E proprio grazie al fatto che avevo intervistato Aaron mi dissero: “Sì, certo, abbiamo già sentito parlare di questo progetto, vogliamo assolutamente farne parte!”. Una volta fatto questo ho raggiunto i Pelican e da loro sono arrivato via email fino a Steve Von Till dei Neurosis, perché appunto avevo già intervistato persone che lui conosceva e rispettava. Devo dire che sono tutte persone molto simpatiche, è solo che hanno sempre un sacco di impegni, così ho deciso di mandare loro dei sample di video e interviste, giusto per descrivere meglio la mia idea. Volevo apparire seriamente intenzionato a portarla in fondo e quelle erano prove inconfutabili. D’altronde avevo cercato di effettuare ogni singola ripresa nel modo più professionale possibile, facendo appello a tutta l’esperienza accumulata fino a quel momento. Ho capito subito di avere a che fare con tutte persone “vere” e leali, non ho incontrato “primedonne” (“What you see is what you get”, parole sue). La mia filosofia è stata: “Questo è il mio documentario ma questa è la vostra musica, quindi, indipendentemente da chi ha realizzato il lavoro, ognuno usi questo materiale per fare qualsiasi cosa voglia”. Questo modo di pormi ha sicuramente giovato alla creazione di un rapporto di rispetto e fiducia e io ho sempre cercato di tenerli informati man mano che il progetto andava avanti. Volevo essere sicuro che tutto andasse per il verso giusto, l’ho quindi trattato come se fosse il risultato di uno sforzo comune, anche perché altrimenti non avrei mai avuto accesso a informazioni esclusive come invece mi è stato permesso. Ho intervistato Steve Von Till in Idaho, dove vive adesso. Sono entrato nel suo studio proprio mentre lui stava suonando nuovo materiale di Harvest Man e ha lasciato che lo riprendessi. Una figata, perché quel materiale era ancora inedito, sarebbe uscito poi nel disco In A Dark Tongue. Ero davvero felicissimo!

Steve Von Till (Neurosis)

Continuando a parlare di DIY…

È interessante notare come tantissime band che hanno deciso di vivere la filosofia DIY non facciano della musica la loro unica occupazione, intendo la loro attività lavorativa. I loro componenti hanno tutti altri lavori. Steve Von Till nel documentario dice che la cosa più importante per loro è cercare di lasciare un’eredità di quello che è stato il progetto musicale. Io penso che l’idea dietro a progetti che hanno come obiettivo principale quello di acquisire fama sia ben differente da ciò di cui stiamo parlando. Magari l’idea proviene addirittura da qualcun altro, da qualche industria che opera nel campo musicale e che sa quali sono i pezzi che finiranno in radio. Se l’intento principale è quello di potersi guardare indietro un giorno e dire “Wow, sono riuscito a realizzare qualcosa che mi rappresenta veramente, senza compromettere la mia integrità morale”, è difficile immaginare persone che siano partite dal solo scopo di fare musica da vendere alle radio per fare soldi e successo. C’è comunque una cosa che mi confonde in tutto questo: abbiamo esempi di band come Flaming Lips, Tool e Mastodon che, pur essendo sotto una major, riescono a mantenere il pieno controllo artistico sui loro dischi, anche se poi non sentiamo le loro canzoni alla radio perché sono troppo lunghe o non abbastanza commerciali. Quello che non capisco è come le major non riescano ad accorgersi che, lasciando a una band un po’ più di libertà, ne trarrebbero beneficio entrambe le parti. Purtroppo queste case discografiche di solito operano con l’idea che la formula che propongono alle band sia l’unica valida nel mondo della musica, e continuano a mettere sotto contratto band che, secondo quella formula, venderanno dischi e permetteranno alla major di fare soldi.

Ho notato che all’interno dell’edizione limitata ci sono un sacco di oggetti oltre ai due dvd. C’è qualche ragione particolare o qualche curiosità a riguardo?

Buona parte di questo documentario è stato girato all’interno di locali e rock club, volevo dare a chi compra l’edizione limitata qualche gadget speciale che possa ricordare il banco del merchandise che puoi trovare ai concerti. Quando vai a vedere dal vivo Pelican, Isis o Neurosis e ti avvicini al merch table, trovi oltre ai dischi e alle magliette anche altri tipi di merch meno convenzionali, veramente belli e rari perché non si trovano a tutti i concerti. Questo era ciò che volevo riprodurre io: prendere quell’idea e metterla all’interno dell’edizione limitata così che chi la compra possa avere qualcosa che solo lui ha. È come un vinile, ci sono sempre serie con colori speciali, e proprio perché stiamo comunque parlando di musica, volevamo riprodurre quell’idea.

Avete ancora avuto possibilità di proiettare il documentario in Europa? Come stanno andando i primi appuntamenti qui negli States? Avete in programma di venire in Italia per promuovere il documentario?

Abbiamo uno screening fissato in Portogallo la prossima settimana (ottobre 2011, ndr), il promoter del festival è veramente molto contento dell’idea, quindi spero venga fuori qualcosa di interessante. È stato trasmesso al Supersonic Festival (UK) la scorsa settimana. Sfortunatamente non ho potuto essere là, ma a leggere i tweet di diverse persone sembra sia andata alla grande. Il festival che abbiamo appena fatto a Oakland è stato molto pubblicizzato: poster, cartoline in ogni bar e coffee shop frequentato da ascoltatori del genere, abbiamo anche fatto un’intervista su un quotidiano che esce in East Bay ed ha aiutato molto. La gente è venuta al festival per vedere le band Ides Of Gemini, Evangelista e Oxbow, ma anche per vedere il documentario. Io volevo che la gente venisse a godersi il concerto e sarei stato molto felice se avesse prestato attenzione anche al film, mi sono stupito molto di vedere quel silenzio e quell’attenzione in tutto il locale quando veniva proiettato e lì ho capito che probabilmente quello è il modo migliore per presentare una cosa come la mia, in un rock club con rock band che hanno ispirato il film. Speriamo di riuscire a venire in Europa per un tour promozionale la prossima primavera (2012, ndr) che coinvolga un po’ di città fra Francia, Germania e speriamo di riuscire a mostrare il nostro lavoro anche in Italia. Stiamo lavorando soprattutto con la Francia, avremmo l’idea di proporlo come abbiamo fatto a Oakland, ma sarebbe stupendo anche poterlo proiettare direttamente in qualche cinema. Basta che ci sia qualche fan di questa musica che vuole vederlo. Se in Italia qualcuno fosse interessato ci piacerebbe molto organizzare qualcosa.