RUINS ALONE / SAX RUINS, 16/11/2013

Sax Ruins

Schio (VI), C.S.C.

Il Centro Stabile di Cultura continua “Al Fuoco”, interessante rassegna di musica sperimentale giapponese, farcita di gruppi erranti quali Acid Mothers Temple, Damo Suzuki, ZZZ e – protagonista di oggi – Tatsuya Yoshida dei mitizzati Ruins. Si tratta di un evento raro, durante il quale il batterista, oltre al famoso progetto personale Ruins Alone, formerà – insieme alla sassofonista Ono Ryoko – il duo Sax Ruins, che sarà il clou della serata.

Ci attende una piacevole sorpresa: il gruppo di apertura. Si tratta dei cechi Už Jsme Doma, un quartetto di scatenati signori, dichiarati illegali durante il comunismo, che eseguiranno un live in bilico fra il tragicomico e il demenziale, degno di grandi maestri come Frank Zappa e Residents (la maglietta del trombettista con il grande bulbo oculare suggerisce una marcata influenza). I quattro si presentano sul palco con dei vestiti, non so se tipici, che assomigliano a delle camicie da notte. Si distingue solo il batterista, in tuta da spiaggia anni Settanta. Il punto di partenza è il folklore della terra natale, alla quale più di qualche testo è dedicato. Il suono della tromba ricorda le più festive composizioni balcaniche, mentre la chitarra è celatamente tecnica: traccia riff molto semplici e ben costituiti, di incredibile buon gusto, e nasconde una grande esperienza alle spalle. Basso e percussioni si fondono a meraviglia: battiti staccati, metronomici, danno un’idea secca delle canzoni (fantastiche e trascinanti, difatti il pubblico pretenderà il bis). Il tutto è arricchito da una divertente presenza scenica (nessuno si prende sul serio) ed è da immaginare come permeato di sonorità dal seme popolare mischiate a una profonda cultura musicale, della quale si riescono a percepire varie influenze. L’interesse sta anche nel trovarle.

Ho dedicato abbastanza spazio ai Už Jsme Doma, e da dire ci sarebbe davvero ancora tanto, affermazione non valida invece per Ruins Alone, il primo fra i tre progetti nipponici in scaletta. Su disco questa one-man-band si è sempre rivelata ok, è ormai una realtà ben consolidata dopo lo scioglimento dei Ruins, risalente al 2004. Dal vivo il sound non differisce dal disco, il problema però è che non c’è un accompagnatore per rendere le parti elettroniche: Yoshida risolve il problema grossolanamente pigiando play sul Mac e seguendo le registrazione con la batteria che, come tutti sanno, utilizza molto bene, così questo set dà solo l’idea di essere uno sfogo virtuosistico delle capacità del solitario Ruin. I passaggi sono complessi, ma le canzoni in sé appaiono mediocri, in quanto – lo si dice senza giri di parole – non sono suonate. Il risultato è noia mista a perplessità.

Più spinto il set per sassofono, eseguito da Ono Ryoko. La tecnica è quella del circular breathing, utilizzata tra gli altri da Colin Stetson e figlia di Rahsaan Roland Kirk, Anthony Braxton, Roscoe Mitchell… in particolare si distingue il suono crepuscolare di Braxton. Il concerto si costruisce su un’unica lunga suite, che mette a dura prova i polmoni della Ryoko. C’è da dire che dopo aver visto Stetson dal vivo questa parte non stupisce più di tanto, ma comunque travolge. Il timbro del sassofono rimane quasi sempre squillante, ma la musicista ne fa oscillare il volume in continuazione. L’ascolto è piacevole, resta il dubbio se lo strumento no sarebbe stato più valorizzato dall’acustica naturale, senza amplificazioni.

Le ultime due performance si sposano nel progetto Sax Ruins, il più interessante dei tre. Questa volta il sax viene distorto, riuscendo così ad amalgamare la violenta, frantumata ritmica della batteria. Anche qui regna un estremo virtuosismo, una tecnica forse madre dei primi Zu. Per quaranta minuti annego in una non-stop di pezzi non troppo lunghi ma eseguiti senza intermezzi. Una violenta offensiva jazz fusion che rende abbastanza pesante il tutto, dato che ben prima della fine molti brani diventano ripetitivi. L’insieme perde un po’ in espressività, è molto distaccato, non lascia spazio ad evocazioni atmosferiche, e abbandona anche quella vena più noise alla quale eravamo abituati: percuote solo il nostro senso del ritmo. Si tratta in ogni caso di un’esperienza estrema, di qualità altissima. Una summa delle mille influenze di Yoshida.

Grazie a Giovanna Opocher per le foto.