PREMARONE

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Difficili da ingabbiare entro categorie per ascoltatori pigri, i Premarone rappresentano uno di quegli enigmi sonori con cui da sempre amiamo confrontarci. Figli tanto del primo punk quanto della psichedelia e del doom, finiscono per confondere le acque e superare steccati stilistici e temporali, così da rendere obbligatorio un faccia a faccia chiarificatorio.

Ciao, prima di tutto raccontateci chi sono i Premarone e come è nato il gruppo. Come è nata la scelta del nome davvero particolare? 

Alessandro (batteria): Ciao! I Premarone sono nati circa quattro anni fa per iniziativa di tre amici: Francesco (chitarra e voce), Paolo (basso), Alessandro (batteria). L’arrivo di Michele alle tastiere poco tempo dopo è stato fondamentale per la definizione del sound del gruppo e per il raggiungimento di un equilibrio ideale. Il nome in realtà è quello del luogo in cui d’abitudine ci troviamo a provare, un minuscolo paesino di sette abitanti sperso in una valle alessandrina, la Val Curone, che dall’Appenino Ligure scende verso la Pianura Padana. In un vecchio libro di storia locale ho letto che la denominazione starebbe a indicare “il posto che si trova prima del bosco di castagni”. Non so quanto questa etimologia sia affidabile, l’idea comunque ci piace e peraltro il castagneto esiste davvero.

Da dove venite musicalmente e qual è il vostro background come musicisti e ascoltatori? Chi vi ha istigato a prendere in mano gli strumenti?

Per quanto mi riguarda istigato è la parola giusta! Sono stati proprio i miei amici a farlo. Ci conosciamo da parecchio tempo e ci siamo spesso trovati d’accordo su molte cose. Sapendo che ognuno di noi suonava uno strumento diverso e aveva avuto qualche precedente esperienza in piccoli gruppi, abbiamo deciso di imbastire alcune prove nonostante le nostre differenti inclinazioni musicali. Francesco ama anzitutto il punk italiano degli anni Ottanta e un certo cantautorato, Paolo può essere definito un ascoltatore piuttosto onnivoro con un background principalmente stoner e grunge, Michele è un grande appassionato di hard rock e soprattutto di progressive degli anni Settanta, mentre io sono da sempre un patito di metal, con una particolare predilezione per la NWOBHM e i gruppi americani degli Ottanta (tipo Manilla Road, Cirith Ungol o Tyrant per intenderci), anche se il doom con i suoi derivati resta il mio ambito preferito. Come vedi si tratta di un quadro decisamente eterogeneo! Vista la diversità dei gusti musicali di ciascuno, fin dalla prima volta in cui ci siamo trovati a provare non abbiamo nemmeno preso in considerazione l’idea di metterci a suonare una cover, per cui abbiamo deciso di andare alla ricerca di una nostra dimensione nella scrittura di pezzi originali. La cosa ci è sembrata funzionare abbastanza bene e ci ha subito coinvolto, per cui eccoci qua.

Se dovessi riassumere il vostro suono in poche parole direi doom psichedelico con una spiccata predilezione per la reiterazione e con un solido retrogusto punk, vi ci ritrovate?

Alla perfezione! A tutti gli effetti si tratta della sintesi dei nostri diversi orientamenti musicali che hanno trovato un punto di incontro nella propensione per le sonorità cupe, ossessive e allucinate, scandite da ritmi lenti e coniugate a un gusto punk, evidente secondo noi soprattutto nell’attitudine dissacrante e un po’ scanzonata che ci contraddistingue.

La cosa che mi ha più colpito è la capacità di fondere insieme passato e presente, avete un forte retrogusto settantiano senza che il tutto suoni mai realmente retrò. Come vi muovete per comporre i brani e decidere la direzione che andranno ad assumere?

Ci ritroviamo anche in questa analisi: il proposito di fondere il retaggio del passato con gli spunti del presente accomuna un po’ tutti i brani e se dici che hai percepito questo intento non può che farci molto piacere. Nella scrittura dei pezzi non seguiamo schemi prefissati, ma tutto prende origine in maniera molto naturale e spontanea: molte volte uno di noi propone un riff o una struttura armonica che, se piacciono, vengono ampliati, sviluppati e inseriti in un costruzione più ampia; sui testi di solito ragioniamo parecchio, ma in genere nascono dopo la musica e si adattano a essa. Spesso ci ispiriamo anche solo a una suggestione, a un concetto che ci affascina e che cerchiamo di tradurre in musica. Per farti un esempio, di recente ci siamo appassionati ai German Oak, cult band tedesca che nel 1972 registrò il proprio primo disco, un oscuro concept sulla Seconda Guerra Mondiale composto da lunghe e tenebrose jam strumentali condite con generose dosi di psichedelia. Questo ascolto ci ha talmente impressionato e coinvolto che abbiamo deciso di riprendere un’idea per certi versi simile proponendoci di ripercorrere gli ultimi vent’anni della storia italiana, pertanto ci siamo messi a lavorare a un nuovo progetto che sta prendendo corpo e che intendiamo battezzare “Das Volk der Freiheit”.

Una peculiarità del vostro linguaggio è di certo l’utilizzo della voce, quasi recitata e dai testi quanto mai particolari. Possiamo parlare di un filo rosso che unisce i brani?

È vero, l’utilizzo della voce presenta aspetti tipici del recitato e spesso assume toni declamatori. Del resto una delle principali fonti di ispirazione di Fra è rappresentata da Giovanni Lindo Ferretti nella fase CCCP. Il nostro cantante è anche il principale autore dei testi, che penso manifestino in maniera abbastanza chiara uno spiccato interesse per la realtà che ci circonda. La chiave di lettura che adottiamo consiste nel fotografare la decadenza della società contemporanea e dei suoi miti, dei suoi simboli, messi in continuo confronto dialettico con il passato più o meno recente attraverso una rete di connessioni. Da qui deriva il senso dell’apocalisse e della traumatica conclusione di un ciclo cosmico, (forse) nell’attesa della palingenesi. In “Rituale Kapnomantico”, ad esempio, l’antica pratica di predire il futuro attraverso il fumo dà vita a una visione in cui, non senza un certo compiacimento, la meschinità moderna viene spazzata via da una catastrofe purificatrice, mentre ne “La Pitonessa” il timore dell’invasione persiana manifestato in Occidente dagli oracoli delfici del V sec. a. C. fa da contraltare alle paure e alle ansie odierne; invece in “Fallobate” (il termine era adottato dagli antichi greci per indicare gli adepti della dea siriaca Atargatis che rimanevano per lungo tempo in meditazione su colonne falliche) all’evocazione di ogni spettacolare ascesa segue una caduta rovinosa, da quella dell’Impero bizantino a quella del povero Franz Reichelt, il sarto austriaco che nel 1912 si gettò dalla Tour Eiffel dopo essersi costruito una sorta di paracadute con cui riteneva di poter volare. Quel che tuttavia manca nei testi è la volontà di una vera e propria critica sociale, perché, come dicevo prima, ci limitiamo a registrare dei fatti: in questo modo “Psichedelia Elettorale”, che abbiamo scritto ispirandoci alla propaganda per le consultazioni politiche del 2013, non esprime tanto il biasimo del sistema partitico in sé, quanto la considerazione del fatto che il rito elettorale è stato svuotato di ogni sostanza.

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Un verso come “Ora è tutto Mediaset dove c’era Stalingrado” colpisce come una lama, direi qualcosa più che una semplice provocazione, o sbaglio?

Non è una provocazione, ma una constatazione: in un raffronto tra l’insensatezza del passato e quella del presente, appare chiaro come oggi quello che resta di alcuni ideali (politici ad esempio, ma non necessariamente) sia svuotato di contenuto, ridotto a messaggio promozionale, buono per dare una determinata immagine si sé e per sentirsi parte integrante di una realtà sociale.

Uscite per Nicotine Records, come vi siete incontrati e che cosa ha fatto scattare la scintilla tra di voi, conoscevate già le sue uscite o altri artisti che hanno lavorato con la label durante i suoi quindici anni di attività?

Ho conosciuto Alberto della Nicotine circa un anno e mezzo fa, quando amici comuni ci hanno presentato mentre ci trovavamo vicino a Milano per ascoltare i Pentagram in occasione del loro ultimo passaggio in Italia. Alla fine del concerto mi ha parlato del libro che stava terminando di scrivere e che è stato edito proprio in questi giorni con il nome di “Bible of the Devil”: un’impresa davvero mastodontica, trattandosi di un’enciclopedia che prende in esame tutte le band attive in ambito hard rock nel periodo compreso tra il 1967 e il 1980. La cosa mi ha subito incuriosito, per cui mi sono offerto di dargli una mano per ultimare la revisione e la correzione dell’opera. Un giorno ho fatto ascoltare ad Alberto il demo di quattro pezzi che avevamo appena registrato e che lui ha dimostrato di apprezzare, proponendoci di pubblicarlo. L’idea ci è piaciuta immediatamente, però abbiamo pensato di non riproporre solo i brani di cui già disponevamo (uno dei quali è stato ri-arrangiato e ri-registrato), ma di aggiungerne anche un altro nuovo e piuttosto corposo, autoproducendoci il tutto. Così è nato un intero album, Obscuris Vera Involvens. Di certo si tratta di un disco non inquadrabile stilisticamente con il resto delle produzioni della Nicotine, che annovera all’interno del suo catalogo nomi storici del garage punk come Fleshtones, Walter Lure, Electric Frankenstein, Lime Spiders…se tra i tanti che hanno militato nelle file dell’etichetta dovessi indicarti i miei preferiti, non avrei dubbi nel citare gli Urban Waste. Adoro il loro hardcore!

Che rapporto avete con l’attività live, promuoverete Obscuris Vera Involvens con dei concerti o un tour?

Certo, cerchiamo di promuovere il disco attraverso concerti ogni volta ve ne sia occasione. Per quanto riguarda un vero e proprio tour, ora come ora la vedo dura, perché ci risulta difficile conciliare un impegno di questo tipo con il lavoro di ciascuno di noi. Tuttavia non escludiamo nulla, per cui se ci sarà modo di organizzarlo ne saremo ben contenti.

A questo punto non potete sfuggire alla domanda di rito sulla vostra percezione della scena italiana sia a livello di band che di possibilità di  suonare dal vivo…

A noi sembra che oggi la scena italiana sia popolata di band davvero ottime: Doctor Cyclops, Midryasi, Doomraiser, Ufomammut, Demetra Sine Die, Caronte, tanto per citarti le nostre preferite. Detto questo, non dobbiamo certo essere noi a spiegare che per un gruppo che opera determinate scelte musicali l’Italia non è di sicuro il paese provvisto delle migliori opportunità di crescita e di affermazione. Non crediamo nemmeno che all’estero tutto sia rose e fiori, ma è indubbio che altri paesi, animati da diverse attitudini culturali, manifestino per certe proposte interesse e attenzione differenti rispetto a quanto avvenga da noi. Tra le varie conseguenze che ne derivano, come ovvio, c’è la maggiore presenza di spazi in cui suonare, purtroppo piuttosto limitati a casa nostra. È proprio in considerazione di questo fatto che ci pare giusto elogiare i pochi locali italiani che permettono all’underground di esprimersi e perseverano nel supporto della musica cosiddetta alternativa.

Non vi annoio oltre, a voi la chiusura…

Ma quale noia? Grazie per l’intervista, è stato un piacere! Se volete potete trovarci sul web.