OBSIDIAN KINGDOM, Mantiis – An Agony In Fourteen Bites

Mantiis

Molteplici fattori rendono questo Mantiis degli spagnoli Obsidian Kingdom una scommessa rischiosa se non folle: un’unica composizione divisa in quattordici tracce, al cui interno confluiscono una moltitudine di ingredienti e linguaggi disparati con l’ambizione tipica di quella che un tempo – nonostante i testi oscuri e non di rado inquietanti che uniscono insetti, sesso e morte in una vera e propria discesa negli inferi della psiche umana – si sarebbe definita una rock opera. Il che, a dirla tutta, è esattamente ciò che si trova una volta premuto il tasto play, ma con esiti molto distanti da quanto ci si sarebbe potuti aspettare incontrando un termine ormai legato in modo indissolubile all’epopea rock anni Settanta, dunque al netto di ogni ampollosità o attitudine barocca. Per il resto, questa babele porta in dono all’ascoltatore un saliscendi emotivo tanto eterogeneo nella forma quanto bilanciato e nient’affatto frammentario nel suo incedere senza brusche sterzate o improvvise frammentazioni. Oltre all’avantgarde di scuola norvegese (Arcturus, Ulver e Ihsahn in primis, ma anche Manes), Mantiis schiera una forte componente post-core, un sentire caro a nomi seminali come quello dei Tool, malcelate affinità con gli alfieri delle scuole ambient o drone, oltre a una serie infinita di altre sfumature sonore che rendono il lavoro degli Obsidian Kingdom simile ad un quadro impressionista in cui la figura, a guardarla da vicino, appare composta da migliaia di macchie di colore affiancate le une alle altre. La cosa stupefacente è che il risultato finale è fruibile e scorrevole, tanto da dare assuefazione e lasciarsi ascoltare più e più volte senza mai venire a noia. Questo grazie a una scrittura bilanciata e sempre attenta a non uscire dalle linee di un percorso a suo modo lineare e coerente. Così non stupisce passare da atmosfere rarefatte e notturne (si potrebbe pensare ai Bohren & Der Club Of Gore) ad aperture prog, fino a sprazzi improvvisi di pura aggressività iconoclasta in cui black e hardcore si scontrano senza esclusione di colpi, il tutto senza rinunciare ad esprimere una personalità marcata e ben delineata. Fuori tempo massimo scopriamo una delle sorprese più affascinanti di un già ricco 2012, con buona pace di chi ancora sostiene che la buona musica è finita nel secolo scorso.