NEEL

Neel

Giuseppe Tillieci, di recente, ha suonato al Mutek e all’Atonal. Ha appena pubblicato il suo esordio su Spectrum Spools ed è il 50% di Voices From The Lake. Avevo l’opportunità di intervistarlo agevolmente. Impossibile non approfittare dell’occasione.

Sei un dj, hai uno studio di mastering e pubblichi come Neel e Voices From The Lake (assieme a Donato Dozzy). Come hai cominciato?

Giuseppe Tillieci: Ho cominciato come tutti, mettendo dischi, era quello che facevo di continuo, successivamente l’amore per musica e la mia passione per l’elettronica mi hanno portato a innamorarmi della Scienza del Suono. Quando ero piccolo ricordo che discutevo con mia madre: per me era troppo strano che parlavo, sentivo i suoni ma non li vedevo, sto raccontando di quando ero veramente piccolo, tipo tre-quattro anni.

Ho avuto sempre una fissazione: dovevo imparare a controllare il suono, un giorno. Per me oggi essere un dj, un ingegnere di mastering e un producer è la stessa cosa. Tutte e tre le attività mi portano a fare la stessa cosa in modo diverso: controllare quello che sento e che continuo a non vedere.

La sequenza di eventi? Mettevi dischi, poi hai provato a fare roba tua e ti sei accorto che potevi anche lavorare sul suono altrui?

Come dicevo precedentemente, ho iniziato mettendo i dischi e poi pian piano, nel momento in cui inizi a costruire il tuo suono in testa, inizi anche a produrre. Il mastering è sempre stato il mio pallino sin da quando avevo diciotto anni, ho studiato tra varie università in Italia e all’estero, e da autodidatta per più di dieci anni, continuo tutt’ora.

Documentandomi, ho scoperto che sei un ascoltatore molto aperto. È merito di internet e delle infinite possibilità (permesse e proibite) che offre oppure anche prima eri un onnivoro, sempre se ti senti così?

Sono sempre stato un onnivoro, questo perché mio nonno aveva un bar fino agli anni Ottanta, che, come tutti i bar dell epoca (anni ’50-’60-’70), aveva il jukebox, quindi a casa ero circondato da dischi 7″, i cosiddetti 45 giri. C’era di tutto, dai Pink Floyd a Peter Tosh, dalla progressive italiana ai Tangerine Dream, ma anche tante altre cose italiane e non. Tutto è nato da li, ma il disco che accese tutto fu Epsilon In Malaysian Pale di Edgar Froese, in particolare “Maroubra Bay”. Ricordo quel momento come se fosse ora, era il 1989 quando lo ascoltai, mi viene la pelle d’oca a pensarci. Chiaramente questo disco è uno dei miei preferiti di sempre.

Domanda collaterale, prendila come un gioco. Io credo (ma non ho i dati) che pochi italiani, anche quelli più matti per l’elettronica, siano andati in Canada a vedersi un’edizione del Mutek, dove hai suonato. Che cosa ci stiamo perdendo? Che cosa ricorderai?

Il Mutek è stata una delle esperienze più belle di quest’anno, non lo dico perché ho partecipato a questa edizione, parlo più come fruitore.
Per una settimana sono stato immerso in un contesto creativo meraviglioso, in cui ho conosciuto tantissime persone interessanti, sentito tanta musica fresca. Il pubblico, per gran parte canadese e americano, calorosissimo, molto aperto e con la reale voglia di stare lì per sentire musica e non per farsi selfie. Poi Montreal, città bellissima e tranquilla, è la cornice ideale per un festival come il Mutek.

Io ho avuto la fortuna di performare due volte quest’anno, sia da solista che come Voices From The Lake insieme a Donato, e tutte e due i live mi hanno lasciato un bellissimo ricordo.

Seguo Editions Mego e le sue etichette “sorelle”, una delle quali, Spectrum Spools di John Elliott (ex Emeralds), ti pubblica. Cosa/chi ti piace di questa famiglia?

Spectrum Spools è una etichetta che seguo dagli inizi, le uscite fatte negli anni mi sono sempre piaciute, tramite Spectrum ho conosciuto per esempio Bee Mask, Container e tanti altri… Essere parte di questa realtà per me è un onore, poi Spectrum la sento come casa mia, un’etichetta dove non ho limiti dove posso spingermi nella produzione senza aver timore. John è una persona stupenda, unica nel suo genere, ed è stato il primo a credere su questo album, molto prima di me…

Thomas Köner: ambient e poco accessibile nella sua carriera solista, dub techno nel duo Porter Ricks. A te dice qualcosa?

Thomas Köner è una figura indiscussa della musica contemporanea, oltre ad essere un artista completo. Musica, visual art, installazioni, progetti multimediali e techno, insomma un artista con la “A” maiuscola. Il primo album suo che ascoltai fu Permafrost, se non vado errato, è uno dei suoi dischi dei primi anni Novanta. Non mi fece impazzire inizialmente. Fu anni dopo, quando ebbi l’occasione di vedere/sentire il dvd di uno dei suo lavori commissionati dal Louvre, che iniziai a capire il suo genio.

Una volta non era così, ma tanti musicisti hanno il loro gruppo e vari side project, con cui mostrano una faccia diversa, magari anche solo per ridere (Nick Cave/Grinderman, così al volo). Che volto di Giuseppe è quello di Voices From The Lake e che volto è quello di Neel?

Diciamo che per ora ho solo mostrato il volto di Giuseppe nei Voices From The Lake, il progetto che da allora mi ha assorbito totalmente fino ad adesso. Sono letteralmente stato catapultato in tante cose grosse da subito. Considerando tutti gli impegni legati ad esso e lo studio di mastering, ho dovuto fare una scelta, sacrificare il mio progetto solista. Adesso le cose sono un po’ cambiate, un album fuori con un progetto audio/video dietro e tanto altro. Come Voices From The Lake ci stiamo ricaricando e stiamo formulando nuove idee, quindi ora è il momento giusto per i miei progetti. Il volto di Neel un pò si è visto con Phobos, più avanti si vedrà con delle uscite techno, ora come ora non lo so sinceramente, mi sto re-inventando.

Dato che il dibattito intorno all’argomento è sempre vivo… per realizzare Phobos quanto hai usato il pc e quanto strumentazione analogica? E aggiungerei: quanto field recordings?

Ho usato tutto quello che avevo a disposizione, e quando non bastava lo strumento me lo creavo io, dentro Phobos c’è tanta strumentazione analogica di nuova e vecchia generazione, sintesi digitale e qualche field recordings. Non sono un purista, il mio studio è quasi interamente analogico, ma questo non significa che disprezzi o non usi le sintesi digitali. Ci sono cose nel sound design che possono essere fatte solo attraverso l’uso di questa tecnologia. Sono due aree che oggi a mio parere non possono essere divise se vuoi raggiungere un risultato veramente ottimale.

Le tematiche “spaziali”, nel genere e non solo, sono un grande classico. Nel tuo caso è la passione per la fantascienza o che altro?

Sin da piccolo sono un grande appassionato di astronomia e geografia. A sei anni i miei genitori mi regalarono un Atlante; mesi dopo sapevo tutte le capitali del mondo, ma non riuscivo a pronunciare bene Atlante, dicevo Atalante al posto di Atlante e mia sorella aveva perso le speranze. L’astronomia arrivò poco dopo, non so… forse i colori e disegni delle galassie hanno acceso qualcosa, penso un po’ con tutti alla fine, solo che poi io non l’ho mai mollata. Tengo a precisare che sono più attirato dai misteri che comunque hanno una base scientifica dietro più che dalla fantascienza comune. Questa cosa vale appunto per Phobos, è la luna conosciuta con più misteri dietro, e con tanti studi scientifici che fanno riflettere.

Le basse frequenze, specie all’inizio, mi hanno crepato il pavimento. Considerato che sei un dj, è scontato chiedertelo, ma… quanto conta la fisicità per te nella musica e quanto in Neel?

Spesso con il termine fisicità si intendono solo le basse frequenze, in realtà parliamo della presenza totale di tutte le frequenze udibili dall’essere umano, ovviamente bilanciate tra loro. Se la vedo da dj, è chiaro che la pressione delle basse frequenze è molto importante, ma bisogna stare attenti, perché quando parliamo di pressione, parliamo di cosa l’orecchio umano percepisce, la pressione non è per forza legata al volume. Tu puoi ascoltare un pezzo ad altissimo volume, che ti dia anche fastidio, ma questo non significa che la pressione sia elevata. È un po difficile da spiegare a parole, qui entriamo nella scienza del suono e non voglio dilungarmi troppo su questo. Il punto è che quando si suona bisogna essere bravi a saper “riempire” il posto con la giusta pressione – qualora l’ impianto lo permetta – senza esagerare. Le basse sono la main part nella musica club oriented, ma se si esagera, il pubblico si stancherà facilmente.
Quando produco cerco di ottenere la fisicità del suono in tutti i range di frequenza, dalle basse alle alte, senza mai stancare, e il test lo faccio su me stesso: durante la produzione di Phobos, ascoltavo ogni step che facevo, e fin quando non raggiungevo quel punto in cui sentivo pieno lo spettro, continuavo a lavorare. Come quando un pittore dipinge un quadro, ma usa tutta la tavolozza dei colori dosandoli nel modo giusto. Questo naturalmente è quello che ho cercato di fare su Phobos.

C’è questa fisicità di cui ho appena parlato, ma c’è anche moltissima cura dei dettagli e del suono. I miei ascolti ambient e noise solitamente mi portano ad aver a che fare con gente più viscerale e quasi volutamente imperfetta. Quanto hanno contato istinto e improvvisazione per Phobos?

Tantissimo, Phobos rappresenta il mio pseudo-viaggio su questa Luna, alla fine e quasi come se ci fossi stato sul serio… L’istinto era dettato dalla fantasia, ogni traccia rappresenta uno step, dall’allunaggio (post landing) al cratere Stickney, dall’attraversamento della Dorsale di Keplero a “Life On Laputa Regio”. Queste aree esistono veramente, e durante la composizione dicevo a me stesso, “ok adesso sono qua”… ho scritto cinquanta pagine di concept prima di comporre la musica. Poi le parole sono diventate suoni. Phobos è un album dove volutamente ho come obiettivo far dilatare il tempo, tante parti nella composizione sono state improvvisate seguendo quel preciso feeling che stavo vivendo in quel preciso momento, nelle tanti notti passate a produrre.

Se ho ben capito, sei molto attento alle visuals, che – dovendo portare un disco ambient dal vivo – sono più che fondamentali. Che cos’hai architettato per questo disco?

Hai colto nel segno, quando il Mutek mi contattò e mi chiesero di fare un live A/V, da un lato raccolsi la sfida, dall’altro sapevo che sui video si giocava una gran parte del live. I video sono stati realizzati insieme ad Yves Yates in arte Yko, un mio carissimo amico, graphic designer belga di adozione berlinese. C’è stato un gran lavoro dietro, 4 mesi, più di 18 ore di footage registrate per poco più di 45 minuti di video. Lui a Berlino e io in giro, tante skype call e tanta pazienza. Tutte le immagini sono originali create da noi seguendo sempre l’idea che ci siamo dati. Per controbilanciare la musica di questo live, alcuni elementi chiave per le immagini si concentrano su una contemplazione onirica della natura e delle piccole cose che ci circondano ogni giorno, che nel tempo abbiamo imparato a trascurare. Un sforzo di conciliare il mondo interiore degli istinti e le intense onde della nostra vita emotiva, con un mondo esterno che è antitetico alla natura. Un tentativo di mappare il luogo in cui questi mondi si intersecano.

Yves è stato grandissimo da parte sua, ha capito l’album meglio di chiunque altro ed è andato in profondità nella scelta finale e nel montaggio. Ero sicuro che alla fine avrebbe fatto un gran lavoro. Può sembrare di parte, ma è la verità, sono veramente felice del risultato ottenuto.

Dove ti vedremo nei prossimi mesi? Darai un seguito a questo tuo percorso in solitaria?

Nei prossimi mesi sarò impegnato in vari progetti in studio sia in solitaria che non, che vedranno la luce nel 2015, sui quali però ancora non dico niente… sto lavorando attualmente a vari remix, in più come al solito varie gig in giro per l’Europa, ed in primavera inizierò di nuovo con dei tour fuori dal nostro continente. Per quanto riguarda Phobos A/V, dopo Mutek e Atonal sarà la volta dell’Asia, iniziando da Tokyo, ma è probabile che prima di Tokyo ci sia un’altro live in Italia dopo quello di Milano.