L’anomalia come regola – Approfondimento sul catalogo di Canti Magnetici

It focuses on the research, through anomalous sounds, words and images, in the fields of natural and cultural phenomena, states of being and sciences. It delimits a triangle in South Italy (Taranto – Ostuni – Lecce).

Facciamo conoscenza con la piccola etichetta gestita da Donato Epiro, Gaspare Sammartano (Cannibal Movie) e Andrea Penso (Selaxon Lutberg) tutta gente non nuova ad avventure simili a questa; in passato Epiro aveva già fatto uscire un po’ di nastri per la sua Sturmundrugs Records, il suo socio apriva la Lemming Records, mentre Penso è anche a capo della Black Moss (Slowmantra, Umberto, gli stessi lavori di Epiro e Sammartano). Tutto parte dalla Puglia, terra dove il sole d’estate arde la pelle e acceca la vista, per ritrovarsi improvvisamente sottoterra…

I canti in catalogo

Il piemontese Luca Garino è una vecchia conoscenza da queste parti, ci siamo occupati della sua band precedente, il trio How Much Wood Would A Woodchuck Could Chuck Wood? e della sua sortita solista come Psalm’N’Locker. Ora cambia di nuovo pelle e si presenta a nome suo con queste registrazioni effettuate nelle montagne vicino a Torino, dove risiede. The Woodcarver è uno studio sui suoni d’ambiente come lo potrebbe mettere in pratica un intagliatore, la registrazione in questo senso rende chiara l’idea di suono estrapolato dal suo contesto naturale, quasi tolto con la forza e scolpito vicino al fiume che scorre e ai passi che si odono nella foresta. Credo sia implicita la vicinanza a certe uscite di Giancarlo Toniutti, nella pratica e nella teoria (si sa della passione di Garino per Alvise Vidolin e il suo discepolo Toniutti, appunto), risultato della voglia di saltare a piè pari una musicalità più classica per approdare in un mondo im-materiale dove la materia stessa prende forma e sparisce come niente fosse. Copertina notevole, ma l’ascolto, seppur intrigante, rimane ostico.

brittle

Con Danny Clay e Greg Gorlen (quest’ultimo boss della minuscola Turmeric Magnitudes) ce ne andiamo dalle parti di San Francisco. Il loro è un sodalizio che ci porta ad ascoltare assorti della drone-music mai pesante, eterea, tra synth e tape loop che si amalgamano con grande naturalezza, con un pizzico di primitivismo. Brittle è una raccolta di pezzi, tre in tutto, piuttosto accattivanti ma sporchi nella registrazione, credo volutamente a bassa fedeltà. Quello del lato A in particolare spicca per stranezza, mentre l’altro paio risultano più degli svolazzi kosmische meno coinvolgenti, ma tra i due comunque se la cava meglio (c’è un maggiore senso della melodia…) quello in chiusura.

absent-outfit

Dietro gli Absent Outfit ci sono l’australiano Matthew P. Hopkins (attivissimo nei campi di field-recordings e drone) e Tim Coster, neozelandese (la terra dei Dead C e di Birchville Cat Motel, non dimentichiamolo…). Il primo si occupa principalmente di artwork e sound, mentre il secondo solo della parte musicale; Coster infatti armeggia come può tra sintetizzatori, tape ed effetti. Untitled è il tipico esempio di lavoro a quattro mani dove ci si perde in strade impervie e vengono fuori delle sonorizzazioni ambientali intrinsecamente legate alla natura, tra sbuffi e gorgoglii. Al solito il risultato appare inquietante e a volte al limite della noia. I due però riescono a deviare con astuzia da quel canovaccio approntando una sorta di ideale tracciato da dopo-bomba, pensate per un attimo di trovarvi svegli all’improvviso in una foresta, è l’alba, siete storditi e avete la bocca impastata, questo è in metafora quello che più o meno si può ascoltare. Nella seconda traccia verso la fine l’insieme si fa ancora più rarefatto e buio. Mica facile addentrarsi in questo groviglio di suoni… ve ne accorgerete ascoltandoli in cuffia ed in rigorosa solitudine. Sarà un bel viaggio…

Videobasic è invece la nuova, ennesima creatura di Michele Mazzani, in pratica un vecchio partner in crime dei tre, dato che suona e fa uscire cassette da una vita, prima come Dona Ferentes ed Eclisse Cremisi, poi come Surava con Andrea Penso, ultimamente sempre con la sua Lonktaar (Futeisha, etc.). Vi ricordo che ci siamo occupati di lui di scrivendo dei Gelba (uscita in cassetta per la Old Bicycle Records in combutta coi My Cat Is An Alien). Anche questo Untitled ha i suoi motivi di interesse: intermittenze e frequenze debitamente manipolate (“Untitled II”), ventate di elettronica più che cheap affogate in circuiterie acide e poco raccomandabili, “Untitled I”; movimenti lunari sul limitare di un’elettronica povera e minacciosa, la lunga e maestosa suite finale, “Untitled III”. Stuzzicanti junk-electronics. (Maurizio Inchingoli)

Uno come Carlos Casas non poteva certo mancare all’appello. Se è di terre estreme che si tratta, di esplorazioni ai limiti e indagini multimediali, allora è giusto ricordare come l’artista spagnolo abbia impegnato in questo modo un intero capitolo della sua vita. Memorabile, ad esempio, la spedizione in Uzbekistan alla volta dell’ormai prosciugato lago d’Aral, o quella in Siberia in compagnia degli ultimi cacciatori di balene. Questa volta Casas è sceso giù fino al profondo Salento, ospite di Indagine Sulle Terre Estreme, il progetto di eventi e residenze curato dalle associazioni Ramdom e GAP. Di questa sua residenza, la cassetta di cui ci occupiamo – intitolata Vucca De Lu Puzzu e composta a partire da registrazioni e radio-frequenze catturate sul campo – non è che una manifestazione. Film a metà tra cinema sperimentale e documentaristico, installazioni, performance espositive in forma di live-media, mostre ed esplorazioni, fotografie, field-recording e soundscape: sono i mezzi e le modalità con cui Casas lavora, e nel Capo di Leuca – dove ha avuto modo di aggiungere un altro tassello, il diciannovesimo, alla sua serie di “Fieldworks” – le cose hanno più o meno seguito tale corso. Da quelle parti, se ci si inoltra nella costa orientale, si ha modo di accedere nelle grotte lì createsi, la cui roccia è stata non solo lavorata dall’azione del mare, ma anche condizionata da chi, a poca distanza dalle acque dell’Adriatico, ha costruito edifici e abitazioni. È fin qui che l’artista si è spinto, tra le cave e le grotte; ed è da una di queste che Vucca De Lu Puzzu prende in prestito il nome (la traduzione è intuitiva: Bocca Del Pozzo). Due composizioni lunghe quasi mezz’ora ciascuna, in cui innumerevoli avvenimenti sonori vengono posti all’ascolto. Se “Vucca” si presenta come un inferno di voci indecifrabili, con Casas che rielabora suoni acquatici, aggredisce con ottundenti lance di suono e poi ritorna all’acqua, l’iniziale “Puzzu” è invece il resoconto audio di un ambiente sonoro minaccioso, umido e buio come suppongo siano i luoghi esplorati. Pioggia fitta e temporali, cicaleggi assordanti e scalpitii, segnali radio a onde corte, addirittura scampoli della risonanza magnetica cui Casas si è dovuto sottoporre dopo l’incidente rimediato proprio in quella grotta. Il tutto elaborato e distribuito in modo tale da rendere l’idea di una sorta di narrazione, il racconto confuso di come l’ambiente esterno ha avuto una ricaduta sul corpo e sulle riflessioni dell’artista. Nel finale della traccia, con un loop che esasperato dai volumi insegue se stesso, emerge addirittura una parvenza di musicalità; ma è un’emozione strana, trance-music devitalizzata e tuttavia luminosa. E il comunicato stampa della mostra personale tenuta quest’estate nel capolinea ferroviario di Gagliano del Capo, sottolinea come “la luce naturale è uno degli elementi che rende magiche tante delle grotte che si creano tra gli anfratti della costa Est del Salento […] Durante la sua esplorazione, cadendo in questa grotta e sbattendo la testa sulle rocce di questo territorio, Casas ha compreso il legame intimo che lega caverne, pietre e luci ai posti più remoti dell’anima umana.” In effetti, l’interesse di Casas non prende mai in consegna i soli aspetti ostili delle lande esplorate, quanto il loro fornire un luogo privilegiato da cui osservare se stessi e il mondo. E come spesso avviene, finendo per riscontrare una presunta relazione tra le singolarità dell’ambiente e il carattere di chi ci vive.

Quest’anno l’australiano Matthew P. Hopkins ha fatto uscire un disco che non farei fatica a includere in una ipotetica Top-qualcosa di fine 2016. L’album, questa strana sequela di voci deformi, ambigue note di pianoforte e lenti di ingrandimento posizionate tra le crepe dei suoni (tanto che siamo spesso al limite del cosiddetto lowercase), si intitola Blue-Lit Half Breath ed esce per la Penultimate Press di Mark Harwood, meglio noto come Astor. Ma un altro suo lavoro che agli appassionati di suoni concreti e dell’area hauntology non deve certo sfuggire è quello pubblicato lo scorso anno proprio da Canti Magnetici, Fog Study. Se, fatte le dovute differenze, le febbricitanti e spettrali escursioni del primo si inseriscono nella trama solcata da un Valerio Tricoli, la tenebrosa misura d’insieme del secondo si avvicina a un altro episodio firmato dallo stesso Hopkins, il più basinskiano Nocturnes (2013, Vitelli Records). In entrambi i casi si tratta di un maggior dispiego di feedback e nastri mandati in loop, e per una volta sembra quasi appropriato parlare di dark-ambient, ma con la differenza che in Fog Study emerge quello che sembra essere il suono tetro e possente di un corno; qualcosa di talmente raggelante che viene da chiedersi quanto Hopkins possa spingersi oltre quando si tratta di indurre l’ascoltatore in un terrificante stato di coscienza allertata. Mentre non è affatto difficile intuire a quale nebbia si riferisca o alla fine approdi.

penso

Andrea Penso smette i panni di Selaxon Lutberg e ci rende partecipi di un’altra dimensione del suo fare musica, mi sembra superfluo metterci delle virgolette… Ad ogni modo, nei soli quindici minuti di Ritorno All’Acqua (per Donato Epiro), delle malinconiche correnti ambient-drone di quei dischi usciti su Denovali non restano che timide folate. Ma è chiaro: cambiano il formato, credo buona parte dei mezzi e degli strumenti, il fine esteriore e quello interiore della scelta di esprimersi (e Penso, come affermava Fabrizio Garau su queste pagine, pare molto interessato a quest’ultimo aspetto). Non più stati d’animo in forma sensibile quindi, ma – e cito dal comunicato – “a composition (based on rough field recordings – stando a quanto ho capito effettuate in contrada Gorgognolo, Marina di Ostuni, n.d.r. – and tape loops) about evolution, the baptism of Jesus, a mantra that changes the cells, about human beings who change deeply form and essence in their life time but also about a conscientious involution”. Non sono pochi gli stimoli forniti nonostante la brevità del lavoro, bisogna ammetterlo, tanto che altrove qualcuno si è chiesto (legittimamente, certo) se questo non fosse un pur sorvolabile difetto. A me sembra piuttosto uno degli agenti che fanno di Ritorno All’Acqua… un organismo fragile ed enigmatico. (Davide Ingrosso)

Intervista a Donato Epiro, Andrea Penso, Gaspare Sammartano

A cura di Maurizio Inchingoli 

Queste sono uscite che hanno un loro senso, sia singolarmente che ascoltate assieme. Si ha la percezione di stare ad ascoltare più suoni che diventano un unico, grande suono, che insomma fanno pensare a un discorso unitario che però conserva lo stesso caratteristiche ben precise e riconoscibili. Come avete proceduto nel dare quel tipo di impronta alle cassette? Come vi siete divisi i compiti?

Andrea Penso: È fondamentale che ogni singola uscita abbia una sua forza ma nello stesso tempo anche che il catalogo, nella sua interezza, venga percepito a sua volta come una creazione artistica.
Ci sono delle uscite che sono legate in maniera chiara e diretta ad altre. Il mio lavoro “Ritorno all’Acqua” sarebbe stato sicuramente molto diverso se non avessi ascoltato, in una presentazione live a Bologna, quello che poi sarebbe diventato “The Woodcarver” di Luca Garino.
A sua volta il lavoro di Luca si ricollega a me attraverso la bella dedica di augurio di guarigione da lui riportata all’interno del booklet, guarigione da una brutta ferita che mi ero procurato durante il taglio della legna; “The Woodcarver” è basato tutto su registrazioni effettuate da Luca molti anni fa, proprio durante un lavoro di raccolta del legname sulle Alpi torinesi. Pur essendo due lavori molto diversi, sono fortemente collegati.
Per quanto riguarda la divisione dei compiti, tendiamo a organizzarci in modo tale che ognuno di noi segua la produzione artistica di una specifica uscita dall’inizio alla fine, ovviamente sempre confrontandoci prima di ogni decisione.
Oltre alla gestione di Canti Magnetici, ci confrontiamo continuamente sulle nostre idee e intenzioni rispetto ai nostri personali progetti musicali. Penso di poter parlare per tutti e tre affermando che anche questo ci aiuta ad essere sempre più consapevoli.

Gaspare Sammartano: Insieme, dopo diversi confronti e ascolti, scegliamo gli artisti da contattare, valutiamo il materiale che ci viene proposto e decidiamo come costruire le varie uscite. Abbiamo voluto delineare sin dall’inizio una linea abbastanza precisa, coinvolgendo nomi a cui siamo legati da tempo (Garino, Videobasic) ed altri che già seguivamo ma con cui non c’era ancora stato un contatto (Hopkins, Casas, Clay & Gorlem). Riuscire a ottenere un unico grande suono penso sia un bel traguardo, potrebbe essere il nostro obiettivo finale.

Donato Epiro: I lavori che ci interessano sono quasi sempre il risultato di suggestioni che provengono da ambiti diversi e sono il punto di arrivo (o di partenza) di riflessioni che riguardano l’aspetto naturale, spirituale, fantastico dell’esistente; è su queste connessioni che vogliamo concentrarci. Cerchiamo di lavorare con chi sentiamo di condividere qualcosa e con chi pensiamo si possa instaurare anche un dialogo e uno scambio. I risultati sono quindi prospettive diverse di tematiche che in qualche modo ci accomunano; questo può accadere anche casualmente, come per le prime tre uscite, incentrate ciascuna su un diverso stato/significato dell’elemento acqua. Tutto ciò si traduce musicalmente in un suono che ha una sua vitalità intrinseca e un’immediatezza e semplicità nel porsi, che non necessità di particolari spiegazioni o introduzioni e dovrebbe essere percepito in maniera naturale ed istintiva (serve ovviamente un minimo di predisposizione nel recepire…). Personalmente vedo il nostro catalogo come un luogo ideale in cui riesco a ritrovarmi, ma anche come un via di fuga da altri ambienti sonori, più alienanti e intossicati, che comunque ci interessano e frequentiamo. Ad ogni modo, il principio dello scambio, dell’incontro ed arricchimento reciproco è, oltre ad un approccio un po’ hippie e fuori moda, l’unico sistema con cui pensiamo abbia senso oggi portare avanti un discorso come Canti Magnetici.

Domanda per Andrea. Perché hai deciso di vivere per un periodo al Sud? Cosa ti ha attirato in maniera particolare?

Andrea: Moltissime cose, le prime che mi vengono in mente sono: la frutta e le erbe spontanee commestibili che in alcuni periodi dell’anno spuntano in abbondanza. Per almeno tre mesi si potrebbe vivere mangiando solo cibo raccolto in giro, volendo anche senza avere della terra tua, magari rubando qualche frutto qua e là… Donato è un maestro in questo! Poi perché la Puglia è una regione in cui è ancora possibile trovare gioielli nascosti preservati da curatori artistici vari, come ad esempio il Santuario della Pazienza di Ezechiele Leandro, che in qualsiasi altra regione (esclusa la Calabria forse) si sarebbe trasformato in uno sterile museo. Invece le statue di Leandro si trovano ancora nel suo scalcinato giardino, con l’erba alta e gatti che si aggirano tra le sculture, circondate da alte mura che Leandro costruì per evitare che la gente del posto continuasse giorno dopo giorno a distruggere le sue opere.
Il mare in inverno è primordiale, pazzesco… Io amo la montagna ma una forza così è ineguagliabile.
I motivi che mi hanno fatto andar via dopo poco sono del tutto personali. Con questo non voglio certo idealizzare la Puglia, nello stesso tempo non riuscirei a riportare qui un’analisi sintetica e lucida di ciò che penso riguardo le differenze tra Nord e Sud. Indubbiamente il pensiero più doloroso è rivolto ai cani che vedevo ogni giorno girando per le campagne, tenuti come fossero antifurti, costretti a vivere in gabbie, un’usanza molto diffusa.

Donato, Gaspare, voi due siete avvantaggiati in un certo senso, fate tutto in casa vostra e conoscete bene l’ambiente nel quale operate. Come siete riusciti a far comprendere/apprezzare ad Andrea (anche a Carlos Casas…) tutta la bellezza del Salento?

Gaspare: In realtà da queste parti, anche solo l’idea di partire avvantaggiati non esiste. Al di là delle nostre esperienze, portare avanti discorsi di questo tipo è molto complicato. Trovare gli spazi adatti e riuscire ad avere un seguito locale che alimenti e supporti determinate proposte richiede del tempo e molto lavoro. Amiamo la nostra terra e quello che facciamo, ma questo non ci assicura basi solide su cui poter costruire qualcosa. Tuttavia riuscire a far apprezzare il nostro territorio (mi riferisco alla Puglia in generale) e metterne in risalto le potenzialità, più o meno nascoste, non è così difficile, in modo particolare poi se parliamo di Taranto. In questo momento noi non siamo molto attivi, ma in città c’è comunque parecchio fermento. La città vecchia si è riappropriata di una sua identità, diversa da quella consolidata da tempo anche nell’immaginario degli stessi tarantini, ed è ormai diventata punto di riferimento per molti creativi pugliesi e non… Il nostro Museo Nazionale Archeologico – MARTA, rimesso a nuovo, è un punto di partenza fondamentale per una rinascita del turismo in città. Dal punto di vista musicale poi il movimento legato alla club culture vive probabilmente oggi uno dei sui momenti migliori, grazie soprattutto al lavoro dei ragazzi del Sound Department, la cui programmazione settimanale, con in line-up dj e producer di altissimo livello internazionale, è un punto di riferimento per tutto il Sud Italia.

Donato: Carlos lo abbiamo incontrato per la prima volta proprio qui in Puglia, a Gagliano del Capo, in occasione di una sua residenza, organizzata nell’ambito del progetto “Indagine Sulle Terre Estreme”, presso Lastation, lo spazio artistico-culturale diretto dall’associazione Ramdom dei nostri amici Luca Coclite e Paolo Mele. Un posto meraviglioso nato all’interno dei locali della stazione ferroviaria più a Sud-Est d’Italia, ancora attiva e quindi vero e proprio capolinea ferroviario della penisola. Il suo stesso lavoro, Vucca De Lu Puzzu, è stato realizzato utilizzando registrazioni effettuate durante le esplorazioni condotte lungo la costa Est del Capo di Leuca. Sono quindi stati principalmente i ragazzi di Ramdom a far conoscere a Carlos queste zone ed in particolare il versante costiero del basso Salento. Andrea è invece oramai di casa in Puglia, sono anni che ci raggiunge per la raccolta delle olive e la produzione dell’olio nella Valle D’Itria, sulla costa Adriatica. Della Puglia ci sono tantissimi aspetti meravigliosi, alcuni ti si palesano subito: il mare, le campagne, la luce, il clima ed il cibo; altri impari a conoscerli gradualmente e sono legati soprattutto a stili e ritmi di vita. Alcune volte ti sembra di sbattere la testa sempre contro lo stesso muro ma i fattori che ti spingono a vivere in un posto e che ti legano ad esso sono tanti e non necessariamente hanno a che fare con l’attività musicale o gli eventi del fine settimana. Taranto è un caso a parte, ed è sicuramente un’anomalia all’interno del Salento. Io la trovo bellissima in tutte le sue contraddizioni, nella sua durezza e cupezza. Non sono un fan di questo affollamento artistico che sta interessando la città vecchia e penso che, terminati bandi, progetti e soldi, resterà poco o nulla. L’isola vecchia d’altronde è un’opera d’arte di per sé, lei e chi la abita hanno bisogno soprattutto di discrezione e rispetto e non saranno certo dei disegnini sui muri, mostre improvvisate e installazioni ad aumentarne il valore o, parola orribile, a riqualificarla.

Immagino siate ben consci del fatto che le vostre uscite risultino parecchio di nicchia, le definirei dei veri e propri studi sonori (un po’ lo specificate sul vostro Tumblr…). Si capisce bene che c’è poco a che fare con vendite e particolare visibilità, non è un caso che se ne sia letto poco in giro. La cosa vi infastidisce o non vi interessa?

Andrea: Non mi infastidisce affatto. Ad infastidirmi piuttosto è la situazione attuale del giornalismo musicale in Italia. Se si scrivesse di musica in maniera appropriata e se ci fosse una vera critica, ovviamente sarei dispiaciuto che non se ne parlasse, ma per come è la situazione al contrario sono quasi sollevato che non si scriva molto del nostro piccolo lavoro (voi siete i primi che lo fate in maniera più concreta). A mio avviso la gran parte di ciò che si scrive, soprattutto in ambito underground, è per lo più inutile e nel peggiore dei casi imbarazzante. Poi c’è questa autentica presa in giro, che a quanto pare è molto in voga, di “scrivere” recensioni praticamente traducendo le press release che fornisce l’etichetta. È veramente triste che non ci sia proprio nessuna analisi un minimo approfondita da parte dei giornalisti. Penso ad esempio al fenomeno della nuova psichedelia italiana, in molti hanno cercato chissà dove le cause del decadimento di questa nuova “scena”… a mio avviso uno dei problemi, forse il più grande, è stato proprio che i giornalisti (e altri “esperti del settore”)  hanno fatto di tutta l’erba un fascio con il loro solito approccio approssimativo, accostando progetti mediocri (o magari gruppi validi ma che non c’entravano assolutamente nulla con l’idea che si stava creando…) ad altri con un loro valore, o quanto meno con una loro specifica coerenza come Donato Epiro e i Cannibal Movie, Jooklo Duo, gli Heroin In Tahiti e pochi altri… Era ovvio che con quelle premesse il giochino sarebbe risultato interessante solo in Italia e pure per poco tempo. Ad un certo punto ogni disco di anonimo drone industriale, come per magia si è trasformato in un album di library-music, oppure una brutta copia del krautrock è diventata un eccezionale esempio di “minimalismo etnico italiano”.
Leggevo sul bellissimo Superonda di Valerio Mattioli riguardo a Demetrio Stratos che sparava a zero sugli Aktuala, definendoli praticamente dei pifferai da quattro soldi… Oggi chi avrebbe il coraggio di esprimere un giudizio così radicale? Eppure è anche questo genere di constatazioni (condivisibili o meno, io personalmente non avrei condiviso del tutto la posizione di Stratos, il primo degli Aktuala e i dischi dei Futuro Antico sono comunque molto interessanti) che può far evolvere un gruppo.

Donato: Abbiamo anche deciso di muoverci in maniera discreta perché è la stessa proposta di Canti Magnetici a richiederla. È importante che ci sia una corrispondenza fra quello che produciamo ed il modo in cui lo presentiamo e proponiamo. Chi è interessato a questi lavori li troverà, ci si avvicinerà e, se vorrà, ne parlerà. Siamo tutti abbastanza navigati in quest’ambito e, quando si è trattato di dover spingere su certi aspetti (vedi i Cannibal Movie), lo abbiamo fatto stando ovviamente al gioco ed incassando anche alcuni fraintendimenti. Resta un po’ di perplessità su come funzionino certi meccanismi. Ci saremmo ad esempio aspettati maggior attenzione, o anche solo curiosità, per l’album di Gaspare, Low Pitched Italy, un disco a mio avviso nettamente superiore rispetto al primo dei Cannibal, e rimasto forse penalizzato dal non portarsi dietro tutto quell’immaginario così forte e accattivante (ma la musica non è solo “Teste Mozzate”, no?). Ad ogni modo è arrivato a chi doveva arrivare. La definizione “studi sonori” non la trovo invece troppo calzante e potrebbe essere fraintesa, dato che uno studio di solito comporta una certa distanza fra l’osservatore e l’oggetto esaminato, mentre il nostro approccio prevede un coinvolgimento di tipo diverso.

Avete dei modelli di riferimento, tipo etichette specializzate in cassette che seguite con particolare attenzione?

Andrea: Modelli specifici non direi. Tra le etichette di oggi mi piace molto la ricerca sonora della Penultimate Press di Mark Harwood, la Kye di Graham Lambkin degli Shadow Ring. Sempre rimanendo in ambiente sperimentale-underground, mi piaceva la Corpus Hermeticum di Bruce Russell, più che per il sound in sé per il modo in cui i musicisti si “intrecciavano” nel catalogo.

Gaspare: Vitrine su tutte, misteriosa e stramba. Mi piacerebbe un sacco avere qui con me il catalogo completo. Tra le italiane consiglio di seguire la neonata Tape Tales.

Donato: Confermo anch’io Kye, Penultimate Press, Vitrine ed aggiungo la Cascading Fragments di Greg Gorlen. In Italia ci piacciono Second Sleep, Joy de Vivre e la Lonktaar di Michele Mazzani.

Sul sito c’è anche una registrazione catturata al Carnevale di Aliano, in Basilicata; credo tutti sappiano che è il paese dove visse esiliato dal regime fascista il piemontese Carlo Levi, che infatti citate. Perché siete arrivati fin lì? Anche John Giorno ha origini di Aliano tra l’altro; i finlandesi Circle hanno usato una foto dei Sassi di Matera per uno dei loro dischi (in Pharaoh Overlord, dove citano addirittura la Madonna di Viggiano). Cosa ci avete trovato di tanto speciale in quei luoghi non così distanti dalla Puglia?

Andrea: Abbiamo riportato la descrizione del carnevale di Aliano scritta da Carlo Levi perché è stato quasi scioccante vedere come quasi nulla sia cambiato a distanza di tutti questi anni. Penso che quel giorno fossimo tra i pochi forestieri. I ragazzi con le maschere contadine “venivano a grandi salti, e urlavano come animali inferociti, esaltandosi delle loro stesse grida, sembravano demoni scatenati; pieni di entusiasmo feroce”, più passavano le ore e più erano ubriachi, il fatto di stare sotto quelle pesanti maschere credo non permettesse loro di respirare bene così da alterarli ancora di più. È sempre più difficile trovare questi autentici rituali. Detto questo non vorrei che si fraintendessero troppo i nostri punti di interesse. Indubbiamente siamo affascinati da un certa ricerca antropologica folklorica (e onestamente datata) ma non è centrale, e concentrarsi specificamente su quello sarebbe soltanto imbarazzante e ovviamente non porterebbe da nessuna parte. Come Canti Magnetici, per quanto ci è possibile, cerchiamo di andare avanti (o indietro) osservando uomini, pietre, piante, animali, movimenti vari per arricchire la nostra creatività.

Donato: Non siamo interessati a un discorso di archivio o mappatura sonora, il nostro è più un tentativo di unificazione di aspetti dell’esistente apparentemente distanti ed anche questa registrazione è da interpretarsi in questa prospettiva. È poi una traccia con una sua narrazione, racconta una storia: comincia, ha un suo sviluppo, si conclude. È compiuta ed anche musicalmente ha un suo senso.

Sempre nel sito citate pure Enzo Venturelli, mitico architetto torinese che, oltre a progettare fantastiche strutture ed abitazioni, sembrava avere in mente proprio un mondo nuovo e utopico; la sua è stata una parabola direi singolare… Qualche anno fa passai al Parco Michelotti di Torino dove trova posto una sua opera ormai dimenticata, il rettilario. Anche voi siete affascinati da un certo modo di leggere-decodificare il mondo? Avete in mente un vostro tipo Arcadia insomma?

Andrea: Il mio tipo di Arcadia non si distacca di molto dall’idea originaria della tradizione greca. Un mondo dove finalmente l’uomo possa vivere in sintonia con il creato. Il resto sarebbero piacevoli dettagli e ovvie conseguenze. Personalmente ritengo che il senso della creatività artistica dovrebbe tendere sempre a una sorta di manifestazione di quell’ideale, è una grande sfida, oggi per me la parola “sperimentazione” identifica proprio questo sforzo.

Donato: La cosa più difficile, e su cui lavoriamo quotidianamente, è quella di fare in modo che le nostre vite corrispondano alle idee di cui parliamo. Le nostre discussioni sono principalmente incentrate su questo, e il discorso sonoro è strettamente legato a questa ricerca. In alcuni casi ne è il prodotto, in altri la linea ideale da seguire.

Continuerete a pubblicare cose di questo tipo o pensate a progetti diversi?

Andrea: Credo che lo stile che ha contraddistinto queste prime uscite rimarrà immutato. Sarebbe bello portare avanti altre ricerche sul campo, affinando sempre di più un nostro approccio personale. Approfondire di più la fotografia, il video e la scrittura.

Donato: Sì, sicuramente spazieremo in altri ambiti, coinvolgendo ovviamente nomi già impegnati in questo tipo di ricerche e non lanciandoci noi, allo sbaraglio, in improbabili prestazioni. Un primo passo lo abbiamo già fatto con la produzione del breve documentario “The Postman Always Makes Noise Twice”. Proveremo anche a rafforzare i rapporti con realtà che sentiamo vicine come, appunto, Lastation o il collettivo 0riente, di base a Maglie, con il quale abbiamo già collaborato per il concerto di Francesco Cavaliere e Lieven Moana Martens (Dolphins Into The Future). Renderemo il blog di Canti Magnetici un luogo sempre più di confronto, in cui troveranno spazio interviste, mix-tape ed approfondimenti. Cercheremo poi, per quanto possibile, di rendere reali alcuni di questi incontri, ospitando gli artisti qui da noi, alimentando collaborazioni, organizzando concerti e, magari, anche un piccolo festival.