KRÖWNN, Magmafröst

KRÖWNN, Magmafröst

Con i Kröwnn è stato amore a prima vista, pardon, a primo ascolto, tanto che li abbiamo voluti come portata principale della nostra prima serata al Glue-Lab. La band unisce l’amore per il riff settantiano con quello per l’universo fantasy caro a Robert E. Howard e rilegge il tutto alla luce di una sensibilità attuale, che riannoda i fili con la migliore tradizione doom degli ultimi decenni e la rende appetibile al pubblico odierno. Ovvio che la curiosità per la seconda prova fosse grande, soprattutto perché non si trattava solo di mantenere la stessa botta dell’esordio, ma si doveva evitare che la “formula” si annodasse su se stessa e finisse per diventare una semplice reiterazione priva dell’effetto sorpresa. In questo, i tre Kröwnn sono stati oltremodo attenti, innanzitutto potenziando il volume di fuoco e limando il sound, così da perfezionare i loro colpi migliori e donare la giusta forza esplosiva al riffing e alla sezione ritmica su cui si distendono. In fondo, si tratta di un power trio alla vecchia maniera e non si può in alcun modo prescindere dal suono corposo e rotondo, dalla saturazione ricca di profondità e dai feedback che si insinuano negli spazi vuoti e fanno vibrare le casse. Magmafröst si presenta così alla grande e dimostra come il tempo trascorso sia stato utilizzato dai Kröwnn per affilare le loro armi, anche a giudicare dai dettagli che prendono vita sotto la coltre di distorsione: piccoli effetti, cammei, esplosioni di rumori e cavalcate imbizzarrite, insomma, schegge “altre” che potrebbero persino passare inosservate durante un ascolto concentrato sulla resa dell’insieme, ma che una volta afferrate spiegano il perché non ci si annoi mai e ogni brano porti con sé un quid di personale atto a catturare l’attenzione. Anche dal punto di vista della scrittura, l’esperienza ha giocato la sua parte, soprattutto perché ha permesso ai Kröwnn di trovare il giusto equilibrio tra la creazione di un proprio marchio di fabbrica omogeneo e immediatamente riconoscibile e – come si diceva – la necessità di non ripetersi. Insomma, Magmafröst, pur nel suo restare devoto in maniera incondizionata a un certo immaginario e a una certa epoca (si prenda come esempio l’incredibile apertura di “To Minas Morgul”, pochi secondi di pura estasi targata anni Settanta), riconferma e spinge oltre le potenzialità di una formazione che non si è fatta mai prendere dalla voglia di finire sotto i riflettori, ma ha saputo costruirsi un percorso in cui ogni passo si piantava ben saldo nel terreno a sorreggere quello che non temiamo di definire un piccolo caso all’interno della scena di riferimento. Noi ne eravamo certi e abbiamo voluto scommetterci: avremmo anche ammesso senza ipocrisia un’eventuale errore, invece siamo felici di confermare la nostra intuizione iniziale. Ora attendiamo di vederli in azione dal vivo con i brani di Magmafröst. Al solito, artwork a tema curato da View From The Coffin, altro nome che seguiamo con attenzione.