K11, Another Temple To The Great Beast 666

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Time leaves scars on the land

Nonostante un iniziale scetticismo, non ho problemi oggi a scrivere che Pietro Riparbelli è una figura preminente nell’ambito dei suoni estremi e di confine. Le mie motivazioni non servono, parla molto meglio la lista delle etichette che lo hanno pubblicato negli anni: Radical Matters, Old Europa Cafe, Aurora Borealis, Actual Noise (cioè 20 Buck Spin), Boring Machines, Afe Records, Silentes, Cold Spring e addirittura Touch.

Il 2013 è l’anno del contatto con Utech Records, eccezionale quando si occupa del binomio musica-arti visive, adatta dunque alla “poesia” che Riparbelli costruisce attorno alle sue manipolazioni di onde corte catturate in specifici siti dal grosso potenziale evocativo. In questo caso l’assassino torna sul luogo del delitto: dopo Voices From Thelema del 2008, Another Temple To The Great Beast nasce di nuovo a Cefalù, dentro al tempio di Diana, uno dei luoghi preferiti da quel Mr. Crowley, che visse per un periodo in Sicilia prima d’essere cacciato dall’Italia. Se Riparbelli, facendoci sentire suoni altrimenti impercettibili, rievoca i “fantasmi acustici” che infestano determinati posti, Alex e Kon di Viral Graphics, chiamati da Keith Utech a illustrare l’album, si servono del termine “eco” nel descrivere l’idea-guida del loro progetto per Another Temple To The Great Beast. L’artwork, in questo caso, è composto da alcuni fogli di carta trasparente, ciascuno illustrato con un elemento che è una delle “risonanze” lasciate a Cefalù dal tempo: Diana (essere greci sarà stato d’aiuto ai due disegnatori), Crowley, il tempio stesso con le sue rocce millenarie… Chi prende il disco sovrappone a piacere queste parti, creando la propria copertina e decidendo quanti strati adoperare, un po’ come sarà costretto a fare ascoltando il lavoro di Riparbelli, nel senso che dovrà stabilire se sposare il discorso filosofico che c’è dietro, se lasciarsi affascinare dalla storia di Crowley o aderire più banalmente al consueto lavoro noise/ambient dell’artista toscano, cercando di decodificare anche le sorgenti sonore – come sempre – da egli abilmente rimescolate. Per chi non lo sapesse, K11 significa dark ambient primordiale e “pagano”, vasto e profondo, infestato da scariche elettriche violentissime e con un qualcosa di marcio che proviene dalle varie frequentazioni black metal di Pietro. Quello che un recensore di lingua inglese chiamerebbe “trademark” c’è tutto, per me è interessante vedere anche la variazione sul tema, costituita qui da qualche frangente più puro e meno sinistro, onirico senza essere da incubo.

In sintesi: sound artist quantomeno in palla ed eccezionale controparte visiva. Io – fossi in voi – un pensierino…

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