JOSHUA SABIN, Terminus Drift

Sabin, scozzese, riesce a esordire con questo disco sulla Subtext di James Ginzburg degli Emptyset, un gran colpo. Il comunicato stampa informa che il disco è costruito partendo da field recordings raccolti nelle stazioni di Kyoto, Tokyo, Berlino, Glasgow ed Edimburgo. Ascoltando bene, si intuisce la sorgente sonora – ampiamente deformata da Sabin – e l’album acquisisce maggiore senso. Motori, binari, voci, nelle mani di Joshua diventano universali, si trasformano nel paradigma di un viaggio: in treno come nello spazio, sia questo esteriore, interiore o telematico. Il modo in cui lavora sul suono, come lo piega o lo lascia esplodere, ricorda – per dare un punto di riferimento – quello di Jebanasam in Continuum, non a caso uno dei lavori più di successo (credo sia di critica, sia di vendite) della Subtext. Forse l’artista di origini asiatiche cerca un po’ di più la grandeur, ma questa sorta di ambient in grado anche di squarciare le casse lo si sente in entrambi i dischi.

Bene, se non addirittura molto bene.