INVERLOCH, Matthew Skarajew

INVERLOCH

Ho sempre ascoltato più black che death metal, ma questa storia dovrei saperla raccontare. Nel 1993 esce Trascendence Into The Peripheral dei dISEMBOWELMENT. Sarà il primo e ultimo lavoro sulla lunga distanza di questa band australiana. Sarà anche considerato un capolavoro seminascosto del filone death/doom, quello primigenio, non quello che avrebbe aperto la strada al gothic, bensì quello che sarebbe stato la premessa del funeral doom. Un disco in effetti impressionante per l’epoca. Il chitarrista Matthew Skarajew e il batterista Paul Mazziotta avrebbero poi continuato a suonare assieme nei d.USK, prosecuzione dei dISEMBOWELMENT (ne rifacevano i pezzi dal vivo). Matt e Paul, sempre loro, hanno fondato gli Inverloch negli anni Dieci del nuovo secolo, prendendo cantante, bassista e secondo chitarrista (il veterano Mark Cullen) dalla loro scena locale (Melbourne). La Relapse, che aveva ristampato qualsiasi cosa della loro prima band, è stata ben lieta di pubblicare il primo ep Dusk | Subside e quattro anni dopo, un paio di mesi fa (i due non hanno fretta, buon segno), Distance | Collapsed. Il gruppo è in formissima e tesse insieme accelerazioni death, tristezza e solennità doom, dark ambient rarefatto. Gli anni sono passati e ho la percezione che questi signori ambiscano a qualcosa di più levigato, fabbricato artigianalmente, ma con la massima cura per gli incastri. Quelli che si sono appassionati a una delle tendenze del momento in ambito metal estremo, cioè il death/doom decomposto e malsano, magari non saranno d’accordo con questa scelta, ma questi musicisti sono di pionieri e vanno rispettati.

Li incontreremo in Italia assieme agli Usnea il 18 aprile a Bologna (Freakout) e il 19 a Trieste (Tetris), dove vivo. È così che ho avuto la chance di contattare al volo Matt Skarajew.

Compro dischi, partecipo a una webzine, aiuto le persone a promuovere concerti nella mia città. Mi tiene molto occupato da anni, ormai. Non so perché, sarà un bisogno irrazionale. Cosa ti rende ancora creativo dopo venti-trent’anni? Cosa ti spinge?

Matt Skarajew: Tante cose diverse. Scrivere musica come questa è estremo e molto insolito ed è un grande veicolo per esprimere emozioni. Sono anche ispirato da come la gente si connette emotivamente e reagisce ai nostri dischi. Voglio portare in viaggio i nostri ascoltatori, se vuoi. Cerco di immaginare il disco come un film che tu stai guardando.
Ogni volta che leggo o sento che qualcuno è toccato dai nostri album, io trovo stimoli. La musica in generale è il modo per esprimere me stesso. Non sempre è quella estrema, ma questo è il genere e il medium con cui mi sento maggiormente a casa. È stato parte della mia vita per trent’anni e non vedo la possibilità che possa mai abbandonare il mio flusso di coscienza.

Può suonare strano, ma adesso la gente scrive articoli e libri interi sul death metal. La storia è sempre la stessa: c’era il thrash e poi le band hanno voluto andare sempre più veloce, generando il black e il death. Ma voi avete esplorato anche la faccia estremamente lenta del metal. Come venne fuori l’idea al tempo?

La musica pesante e doomy era significativa per molti di noi qui a Melbourne, ai vecchi tempi. Candlemass, Trouble, Sabbath, Witchfinder General, tutte grosse influenze. Semplicemente abbiamo fuso ciò che era influente all’epoca.

Il vostro nuovo album è pazzesco: abbiamo death, doom, dark ambient compenetrati. La produzione è pulitissima, ma rimanete pericolosi. Abbiamo anche melodie molto tristi (questo deriva dai vostri ascolti doom, suppongo). Come riuscite a tessere insieme così bene tutti questi generi e stili? È istinto? È sedersi a un tavolo e “sceneggiare” o “progettare” una canzone?

Per me adesso è in gran parte istinto. Comunque ho preparato delle demo dei pezzi e ho lavorato con Mark (Cullen, chitarra) nel mio studio sulle strutture e su come si evolveva la musica. Anche lui è molto attento ad avere una visione d’insieme. Sono cosciente degli elementi della composizione, di come questa si debba sviluppare, di come si relazionerà agli altri pezzi, e di cosa ciascuna traccia stia cercando di evocare musicalmente. Volevo che il disco desse la sensazione di essere un’opera singola, anche se non si tratta in alcun modo di un concept album. Quello che mi piace fare è esplorare dei motivi e riscriverli in modo differente nel corso dell’album, così si genera una strana sensazione di coerenza: un riff doom vicino alla fine dell’album può essere la riproposizione di una melodia gentile presente prima.

INVERLOCH

Ti consideri il maestro di cerimonie, almeno qualche volta?

È legittimo in qualche modo affermarlo. È vero, scrivo la maggioranza delle tracce, però Mark ha lavorato fianco a fianco con me a questo disco e ha contribuito grandemente, il che gli va riconosciuto. Alcune idee diventano canzoni che scrivo da solo, altre vengono lavorate molto in profondità con la band in sala prove. C’è una piccola parte di jamming, ma solo quando le idee non funzionano in modo naturale in studio. A volte ho un’idea forte per un pezzo, i ragazzi si fidano di me e facciamo dei demo finché non suona e non la sentiamo ok. In altri casi, come con “Eventide Pool”, io porto quello che è in tutto e per tutto un brano completo.

Semplice non è l’aggettivo giusto per i vostri artwork. Ma hanno solo l’essenziale. Anche il logo è pulito e chiaro. E mi incuriosisce anche la barra verticale che avete utilizzato nei titoli dei due album che avete pubblicato come Inverloch. Chi gestisce le grafiche per voi? C’è una filosofia “less is more” dietro? O una specie di minimalismo elegante…

Mi terrei distante dal termine “minimalismo”, perché poi non definirebbe anche la nostra musica. Non si tratta di forme semplici, grandi, come nelle arti visive. In termini musicali minimalismo descrive motivi ripetuti all’eccesso, che piano piano si trasformano. Noi di sicuro non siamo Steve Reich o Philip Glass (anche se amo moltissimo il genere).
Sono per un’estetica che si differenzi. Mi piace che il nostro logo “esca fuori” anche nel contesto del flyer di un festival. Dal punto di vista delle immagini il nostro graphic design è gestito da Orion Landau, che realizza già ottimi artwork per Relapse, e abbiamo anche un rapporto eccellente con Costin Chioreanu, il quale ha disegnato per noi poster e t-shirt sin dall’edizione 2012 del Roadburn. Abbiamo voluto conservare le linee semplici, eleganti delle quali Renato Gallina (il cantante dei dISEMBOWELMENT, ndr) è stato pioniere nei primi Novanta, anche se adesso abbiamo un po’ più di libertà per consentire anche un’evoluzione. La linea verticale di divisione era inizialmente un’idea di Paul, e abbiamo ritenuto logico portarla avanti col nuovo album, sembra essere solo nostra per quanto ne so…

Sarò così fortunato da vedervi dal vivo nella mia città, nel corso del vostro imminente tour con gli Usnea. Cosa dobbiamo aspettarci da voi? Tenterete di mantenere inalterate le atmosfere del disco o proverete qualcosa di diverso? Improvvisate ogni tanto o rimanete fedeli alle tracce registrate?

Ammetto che cerchiamo di ripetere la musica così com’è su disco, persino con gli intervalli ambient, ma la setlist è un mix di vecchio e nuovo. Non siamo proprio degli improvvisatori, noi Inverloch (sarà il mio background di chitarra classica), e in questo momento credo che gli spettatori siano interessati a sentire come le registrazioni si traducano live, quindi ci atteniamo al formato originario. Se c’è tempo e ci troviamo in qualche città nuova per noi, occasionalmente rivisitiamo un vecchio pezzo dei dISEMBOWELMENT, ma è un’eccezione, non la regola. Il tour con gli Usnea sarà molto divertente e penso che tutti sentiranno musica devastante quella sera.
Grazie per l’interesse, non vediamo l’ora di incontrare i nostri amici in Italia!