HORSEBACK, Dead Ringers

Jenks Miller è stato lanciato nel 2009 da Utech Records con The Invisibile Mountain, un disco poi ristampato da una Relapse convintasi del talento di questo musicista, tanto che sette anni dopo lo pubblica ancora. Tra l’altro – sempre grazie a Utech – Relapse deve aver scoperto (e scritturato) anche i Locrian.
La formula di Horseback non è così semplice come può sembrare descrivendola a parole: ripetitività ipnotica, drone, riff di chitarra che sanno di Americana, Neil Young, film western. All’epoca questo progetto solista (o quasi) sembrava uno sviluppo del discorso degli Earth di Hex, ma con cadenze masticabili da un platea (potenzialmente) un po’ più ampia. Col passare del tempo, però, si è capito che il sound di Horseback ha molti padri, appartenenti a epoche e luoghi diversi. In tutto questo tempo Miller ha lavorato sul suo personale canovaccio, cercando di aggiungere qualche elemento di novità e cambiando stile vocale, passando da un insoddisfacente rimuginio che aveva qualcosa a che fare col metal estremo (ma non era gridato) a una voce pulita non sempre in grado di reggere le melodie che tentava di cantare. Questa volta, senza strafare, al microfono tiene per tutto il disco, scegliendo sempre toni quasi narrativi e suadenti, conservando lo stesso sound di chitarra quando forse era ormai opportuno espanderlo o diversificarlo. Jenks sceglie poi di accompagnarsi con synth e tastiere che potrebbero rimandare ai tedeschi degli anni d’oro, ma che invece danno una sensazione di povertà e non di buon recupero, all’incirca lo stesso problema che penalizza una sezione ritmica più banale che consciamente minimalista.

Sono onesto: io non so bene come prenderlo e tra l’altro il resto del mondo lo adora. Per fortuna nel 2016 capire se un recensore è incompetente può essere molto facile: basta un click dopo l’ultimo punto.