HARRY PUSSY, Let’s Build A Pussy

Let's Build A Pussy

Vedi alla voce follia: in estrema sintesi questa è la definizione che ci sentiamo di usare per Let’s Build A Pussy, monolite diviso in quattro movimenti (compreso l’unico urlo iniziale di Adris Hoyos) del duo aperto di Miami, appena ristampato. È evidente come la musica che ebbero a esprimere nei primi lavori lasci in seguito il posto a un’estremizzazione di quei suoni stessi (siamo a fine corsa, nel ’98, e dopo pochi lavori più che degni di nota), tanto che il sospetto che l’insieme possa essere soltanto una boutade è più che fondato.

Facciamo dunque finta che il disco sia un esercizio musicale muto o uno sforzo più che meditato di computer music estrema. Allora le coordinate cambiano all’improvviso, anche perché una volta entrati in questo vortice fatto di bordoni più o meno in-stabili e poggiati su toni parecchio alterati, il risultato pare essere più che solo effimero. Qui viene messo da parte il concetto di musica popular (a ben ascoltare, si potrebbe pensare ad una sua stiracchiata parodia) comunemente inteso, perché pare di assistere alla materializzazione di una formula altra, che contraddistingue il disco e diventa al contempo croce e delizia del suono stesso. La tecnologia che si fagocita da sé, potremmo affermare: gli Harry Pussy come indagatori di una musica astratta, immateriale, volutamente fuori dai canoni. Immaginate il misterioso conducente del camion di “Duel” di Steven Spielberg che deraglia di continuo per le strade assolate degli USA mentre batte imperterrito sul clacson. Non vuole essere una descrizione banale del disco in questione, ma soltanto una suggestione o una possibile chiave di lettura più immaginifica tra le mille papabili.

Ora, usciti da questo gioco della finta interpretazione, possiamo tranquillamente affermare che Let’s Build A Pussy ─ uno dei titoli più belli che si sia mai udito ─ può esser visto pure come un consiglio d’ascolto per menti flippate (la nostra in primis) che non si accontentano delle cose che s’ascoltano di solito. D’altronde basta porre l’orecchio su uno qualsiasi dei dischi successivi di Bill Orcutt, fatti di un continuo e dolce seviziare le corde della chitarra, per capire le basi di cotanta chirurgica scelleratezza.

Completano il tutto le liner notes di Alan Licht, per questo doppio vinile (comprensivo di nuovo mastering berlinese) che è d’uopo avere tra le release più malate della vostra discografia.

Tracklist

Side A – Part One
Side B – Part Two
Side C – Part Three
Side D – Part Four