GRUFF RHYS, American Interior

GRUFF RHYS, American Interior

Se c’è qualcosa che manca nel mondo di oggi, quel qualcosa è proprio la fantasia. Ed è inutile dire che anche la musica, negli ultimi anni, benché non priva di nomi e uscita di qualità, è andata incontro a un appiattimento non da poco. Questo perché inseguire la moda del momento, se proprio di moda vogliamo parlare, è diventato un imperativo sempre più all’ordine del giorno: “domani che si fa, la svolta elettronica?” “Ma sì, dai”. “Il prossimo disco, revival post-punk new wave che piace tanto ai giovani che non hanno mai sentito i Killing Joke?” “Avoglia, mettici qualcosina di chitarra stile U2, ché così raccattiamo pure un po’ di belle fiche”. E via discorrendo. Potrei continuare ad libitum a scrivere ipotetici dialoghi tra musicanti in erba, ma mi fermerò qui. Piuttosto, vorrei presentare un uomo che, a differenza di troppi altri, di fantasia ne ha da vendere e quanto a talento non scherza affatto.

Ecco, Gruff Rhys: chi era costui? O meglio: chi è costui? Per tanti sarà l’ennesimo Carneade, ma se vi dico “Super Furry Animals” ecco che a qualcuno si accenderà la lampadina. Non che il suddetto gruppo sia il più famoso del panorama brit-pop; anzi: trattasi di band fin troppo malcagata, che vale la pena recuperare, nel caso la si fosse smarrita per strada. Insomma, per farla breve, il nostro amico è il cantante dei Super Furry Animals, che però ha trovato il tempo di prender parte ai più disparati progetti, tra i quali figura una carriera in solitaria di tutto rispetto, ferma al 2011 (anno dell’ottimo Hotel Shampoo). Tre anni dopo, Gruff torna a timbrare il cartellino con American Interior, rischiando davvero di sfornare la sua prova migliore.

L’album in questione è un concept (brutta parola, ma in questo caso ci sta) a tutti gli effetti. Il musicista gallese, a questo giro, ha perso la testa per la storia dell’esploratore e suo conterraneo John Evans, che alla fine del Settecento s’imbarcò alla volta dei neonati Stati Uniti d’America, alla ricerca di una tribù di nativi dalle improbabili origini gallesi, denominata Mandan. Chiunque avesse raccontato questa storia allo sfortunato viaggiatore, lo aveva senza dubbio preso per i fondelli: infatti la tribù c’era sul serio, ma i parlanti gallesi risultarono non pervenuti. Egli progettò comunque una mappa in cui aveva tracciato il suo percorso per raggiungere le coste del Pacifico attraverso il fiume Missouri; e tale cartina servì in seguito per la più celebre spedizione di Lewis e Clark, mentre John Evans aveva già tirato le cuoia da qualche tempo, poco prima di compiere il trentesimo anno di età.

Insomma, chi potrebbe mai scrivere un libro, poi girare un documentario e dopo incidere anche un disco su ‘sta roba qui? Solo un matto come Gruff Rhys, che però ha tirato fuori un disco che è da togliersi il cappello; disco nel quale si riprende il discorso già iniziato con i lavori precedenti, senza tralasciare i Super Furry Animals.

In qualità di solista, la sua è in fondo un’anima da cantautore pop: per quanto fuori dagli schemi, tra un divertissement e l’altro, riesce comunque a inanellare una serie di pezzi davvero notevoli, a cominciare da una title-track che sin subito rimane viva nelle orecchie di chi ascolta. Mitico il folk-country a bassa fedeltà di “100 Unread Messages”, così come la semplice ma efficace melodia di “The Last Conquistador”, che rimanda a quell’Elvis Costello che qui si rivela essere il nume tutelare di questi tredici brani. Decisamente più intenso il lirismo di “Liberty”, mentre “Alluweddalau Allweddol” sembra uscita dalla mente di un Damon Albarn sotto acidi. “Iolo”, oltre a essere un paese in provincia di Prato, è una simpatica cavalcata che introduce ballate più classicamente brit come “Year Of The Dog” o “Walk Into The Wilderness”. Conclude il tutto la dolcemente beatlesiana e psichedelica coda strumentale di “Tiger’s Tale”, finale ideale per un disco che sorprende proprio per la fantasia di cui scrivevo all’inizio.

American Interior è un lavoro eccellente, che magari non finirà nemmeno in qualche classifica di fine anno. Nella mia, probabilmente sì, e forse in quella di pochi altri. Ecco, continuate a farvi del male così, ché noi siamo gelosi della “nostra” musica.

Tracklist

01. American Exterior
02. American Interior
03. 100 Unread Messages
04. The Whether (Or Not)
05. The Last Conquistador
06. Lost Tribes
07. Liberty (Is Where We’ll Be)
08. Allweddellau Allweddol
09. The Swamp
10. Iolo
11. Walk Into The Wilderness
12. Year Of The Dog
13. Tiger’s Tale