GNOD, Infinity Machines + live report del 5 maggio

Gnod

Il gruppo inglese (di Salford, nelle vicinanze di Manchester) opera già da qualche anno, visto che gli esordi datano 2007. Nel frattempo ha pure avuto modo di collaborare con i White Hills, ma è questo Infinity Machines, in apparenza, che sta procurando un maggior supporto mediatico agli Gnod. Forse, semplicemente, sono maturi i tempi per il tipo di proposta che portano avanti. Si tratta in sostanza di una materia piuttosto informe di tirate – diciamo “psichedeliche”, per comodità – ispessite da bassi possenti e chitarre siderurgiche, immerse in basi di elettronica che stordisce, e non manca pure un sassofono che spinge a dovere, si ascolti l’iniziale “Control Systems”. Spiazza invece “Inevitable Collateral”, una sorta di indolente poltiglia rasente la “techno” che rimane intrappolata in un lago kraut, mentre la successiva “Desire” compie un mezzo miracolo, dato che riesce a combinare urgenza espressiva elettronica e voci incombenti (immaginiamo degli improbabili Asian Dub Foundation costretti dai Chrome a jammare). Il viaggio prosegue con la tracimante “White Privileged Wank”, i colpi di maglio di “Breaking The Hex” (tra reiterazioni e strutture quasi impro-noise) e la torrenziale “Importance Of Downtime”, dalle ritmiche sempre al limite della dance, mescolate a piglio lisergico. È un disco lungo, in formato doppio cd o triplo lp, e dovete necessariamente “staccare” tutto per addentrarvi con la dovuta concentrazione nel loro mondo straniante. Insomma, Infinity Machines ha il suo fascino, e ce li siamo pure visti dal vivo, tanta era la curiosità.

Torino, Blah Blah.

Il gruppo britannico si presenta inizialmente solo in formazione a tre, per una prima sessione diciamo più “improvvisativa”, che infatti è solo un’appendice di quello che si ascolterà più in avanti: venti minuti circa di basso iper-amplificato e suonato con l’archetto, effetti sulla voce e poco più, che fanno da spiazzante apripista; a un certo punto si fermano e se ne vanno per i fatti loro a bere birra e chiacchierare in tranquillità. Ricominciano poi con calma a provare gli strumenti – ora si aggiunge un chitarrista – e dopo una mezz’ora buona si riparte, questa volta però le cose si fanno più chiare ed il pestaggio noise può avere inizio. Già ve lo anticipo: sarà una bolgia infernale.

Un’ora abbondante di continue – e spossanti – tirate tra furia metallica tenuta a freno per miracolo e devianze psych che non mi aspettavo essere cosi ottundenti, in mezzo ad atmosfere quasi “swansiane” (con un pizzico di foga à la Unsane, specie nel cantato) sapientemente impastate in un suono oscuro, tribale il giusto e senza troppi fronzoli. A un dato momento spunta il sassofono, a dare un tocco di colore free-jazz a una tela monocromatica, che però lascia senza fiato per la sovrabbondanza di input e che non riesce a nascondere del tutto pure un minimo di “luce”, vedi alla voce “parti melodiche”. E qui torna la propensione per certe virate hard-psych di casa Rocket Recordings (ricordo che nel suo roster, oltre a Goat e Teeth Of The Sea, ci sono pure i nostri Mamuthones e Lay Llamas), quindi sì la pesantezza, ma sempre un minimo edulcorata dalla capacità di non risultare mai del tutto monolitici. Posso infine solo aggiungere che mi aspettavo un finale di fuoco, e vengo accontentato: una jam talmente violenta che le mie orecchie iniziano a chiedere pietà. Uno dei live dell’anno, finora.