GAETANO LIGUORI COLLECTIVE ORCHESTRA, S/t

Di solito non ci occupiamo di musica jazz, se non di striscio, tuttavia quando ci è capitata fra le mani la ristampa di questo disco free jazz del 1976, abbiamo deciso di provare a capire cosa abbia spinto Black Sweat Records, etichetta milanese che fra cose nuove e riedizioni si muove su un terreno decisamente diverso, a inserirlo nel proprio catalogo.

Il disco esce originariamente per PDU, l’etichetta svizzera di Mina che si è dedicata non solo ai dischi di lei, ma anche alla diffusione sul suolo italiano del krautrock di Ash Ra Tempel, Popol Vuh e Tangerine Dream, nonché alla pubblicazione dei lavori di alcuni dei maggiori musicisti free jazz italiani, dallo stesso Liguori a Gaslini, da Mazzon a Centazzo. Gaetano Liguori, pianista, milanese d’adozione, proviene da una famiglia di musicisti: batteristi sono sia il padre Lino che lo zio Gegè Di Giacomo, storico collaboratore di Renato Carosone (andatevi a cercare su YouTube il video in cui, fra virtuosismo e cabaret, suona tutto il suonabile attorno a lui). Liguori è, a partire dagli anni Settanta, uno di quelli che si prodiga maggiormente per riavvicinare la musica jazz alla gente, al popolo mi verrebbe da dire, e sceglie di dedicarsi alla rottura degli schemi in quello che passa – per approssimazione, come in molti lavori italiani dell’epoca – sotto la definizione di “free jazz”. Il pianista affianca all’attività musicale l’impegno politico, schierandosi al fianco dei movimenti di protesta, suonando per operai e studenti, abbracciando la causa dei popoli oppressi, come si evince da alcuni dei suoi titoli: Cile Libero-Cile Rosso, ¡Que Viva Nicaragua!, La Cantata Rossa Per Tall El Zaatar, People Of Eritrea.

Nella Collective Orchestra Liguori raccoglie accanto a nomi già collaudati come Mazzon, Monico e Bellatalla, quelli di musicisti giovani e agguerriti come Massimo Urbani, Giancarlo Maurino ed Edoardo Ricci: in tutto sono undici i musicisti che partecipano a un progetto che sembra ricalcare per molti versi la formula del doppio quartetto di Ornette Coleman, con tanto di doppio basso e doppia batteria, a cui si aggiungono gli inserti di flauto e trombone. Il prodotto sono due tracce roboanti in cui un flusso torrenziale di note e strepiti si divide fra composizione e improvvisazione: molto poco è, a dire la verità, lo spazio lasciato ai temi, sia nel primo lato, sia nel secondo. In “Collective Suite” la masnada indiavolata sembra dare sfogo a un furore espressivo incontrollato, salvo tornare in alcuni momenti ad aggrapparsi all’ossatura ritmica fornita dal piano, con Liguori stesso che picchia sui tasti come un forsennato, abdicando a quella vena melodica che lo contraddistingue. La batteria di Filippo Monico passa senza soluzione di continuità dal parossismo dell’inizio al ritmo di tango al polverizzarsi in ritmiche molto poco swinganti, concedendosi anche l’assolo. Nella seconda parte della traccia c’è spazio per il lirismo del sax di Urbani e per gli svolazzi del flauto di Sandro Cesaroni sullo sfondo della bella chiacchierata fra contrabbasso e basso elettrico. “Nuova Resistenza” esordisce come un botta e risposta fra piano e strumenti per confluire in una rappresentazione in musica di una rabbia rivoluzionaria che, significativamente, appare difficile da imbrigliare.

Ed è proprio questo spirito libertario, anarcoide, che rende il disco una testimonianza di rara efficacia di un’epoca in cui produzione musicale e passione politica andavano spesso a braccetto: di accademia ce n’è poca, il disco suona più come una sassaiola, con Liguori che, se da una parte organizza, dall’altra fomenta l’agitazione dei suoi sodali, aggiungendosi al novero dei cattivi maestri del periodo. Un disco chiassoso e palesemente divertito, che può raccogliere facilmente anche i favori di chi il jazz non appassiona e che, per spirito di ribellione, sono certo non stonerà nel vostro scaffale accanto ai Crass.