FUSHITSUSHA, Nothing Changes No One Can Change Anything, I Am Ever-Changing Only You Can Change Yourself

Fushitsusha

… in their sound, which delights in creating the comfort of discomfort

Così scrive il buon Alan Cummings (The Wire, ed esperto di musica del Sol Levante) nelle note introduttive di quest’album “mostruoso”. Avrete capito che siamo al cospetto di musiche nerissime ed esasperanti, profondamente “hendrixiane” nello spirito, che però (se si è nel mood giusto) si possono apprezzare in quanto libera e vitale espressione di disagio. Troppo facile, comunque, parlare di “catarsi”, più giusto rimarcare il fatto che un disco del genere possa risultare come efficace viatico per comprendere meglio la storia più oscura della musica popular, bypassando tutte le istanze più ovvie (proprie di certo heavy sound) per riconciliarsi con una formula che contiene in sé performance, atmosfere tese e “teatrali”, oscuro scrutare per mezzo delle urla disumane di Haino e, in questo caso specifico, del possente sax di Peter Brötzmann (che col musicista giapponese aveva già collaborato). Chi conosce i Fushitsusha (e il lavoro del musicista tedesco) ed è al corrente della loro storia lunga e travagliata e dei mille dischi pubblicati, sa benissimo di cosa sto scrivendo.

Veniamo alla musica, divisa per ragioni di formato in tre cd, e registrata come quartetto in un’unica performance alla Hōsei University (culla di una mai sopita controcultura jap) nell’aprile del 1996. L’introduzione del primo disco, di per sé già piuttosto lunga (sui dieci minuti), serve a farci capire che il viaggio sarà lungo e periglioso. Dopo una sorta di scampanellio insistito, la musica si piega e si distorce accompagnando la voce sguaiata di Haino. Per usare una metafora: immaginatevi una folle chiamata verso una sanguinosa “caccia alle streghe”. La mattanza prosegue con sadico incedere nel secondo movimento: prima parte percussiva e poi si continua di fraseggi quasi improv accompagnati da un basso tellurico, che via via si fanno più regolari fino a sfociare nel solito mare di feedback e distorsioni. Il finale è leggermente meno scorbutico e trattiene una melodia sempre piuttosto biascicata, che negli ultimi minuti si fa più nevrotica (s’è superata l’ora di esercizio).

Nel secondo cd, diviso in quattro “movimenti”, i guaiti di Haino si fanno ancora più insistiti (tanto da lambire atmosfere quasi “sciamaniche”) e allucinati: qui incomincia l’interazione col sax di Brötzmann (definito da Cummings “German sax iron man”). Anche in questo caso, un’ora di cerimoniale “psych-noise” che non dà tregua, e che nella prima parte tradisce una vaga impostazione free-jazz (quel basso “morbido” e pulsante che torna verso il finale), mentre nella seconda si fa via via sempre più teatrale, con una rincorsa tra quelle corde vocali e la parte strumentale talmente difficile da sopportare che si rischia un immediato crollo nervoso. Haino chiaramente fa il bello e il cattivo tempo in questa suite, riuscendo a far diventare “musicale” ogni singulto, che ad un certo punto rasenta pure certi “parossismi rumoristi” cari ai Futuristi.

Chiude l’ultima ora del disco la apparentemente più “regolare” terza parte, qui la sua voce è meno nevrotica (ma prendete con le molle le mie semplificazioni), ed in men che non si dica ci si trova invischiati ancora una volta nella consueta marea di feedback e di chitarre urlanti. Come d’improvviso ci troviamo poi in quel che somiglia a una sorta di cerimoniale “dub” (siamo esattamente a metà percorso), per poi perderci definitivamente in un sabba infernale, fatto ancora di chitarre infuocate e di ritmiche ottundenti. Logica vuole che la chiusura sia un delirio incontrollato di tutto lo scibile rumoroso che il gruppo può esprimere, e cosi è infatti.

Un plauso alla coraggiosa Utech Records (e al decisivo mastering di James Plotkin), che si è presa la briga di pubblicare cotanta ferocia.