EHNAHRE, Old Earth

Il terzo album degli Ehnahre rappresenta un’ulteriore sfida e dimostra ancora una volta come il coraggio non sia l’unica arma in dote al progetto di Carchia, McGuire, Donoso (che, al momento di scrivere, sembra abbia deciso di lasciare), bensì la base di partenza per un’esplorazione tanto singolare quanto affascinante.  Sin dalla prima traccia, infatti, appare chiaro infatti Old Earth mantenga intatto l’elevato grado di ostilità della scrittura, da sempre tratto distintivo del trio, ma emerge anche una precisa volontà di finalizzare questa natura refrattaria alla creazione di un quadro complesso e assolutamente non sterile. Se il mood radicale di “Old Earth I” prende alla gola e lascia esanimi, già nel secondo episodio si comprende come gli Ehnahre, oltre a distruggere, sappiano anche costruire secondo le regole canoniche, o per lo meno le conoscano e ne sappiano trarre materia da plasmare secondo la loro personalità sui generis. Così death, drone-doom, jazz, astrattismo e atmosfere notturne si trovano a convivere in un album ricco di fascino e capace di donare più di un brivido lungo la schiena, privo soprattutto di qualsiasi patinatura arty o tendenza manierista. Perché, detto fuori dai denti, Old Earth è leccornia per palati abituati a cimentarsi con cibi inusuali (a tratti si avverte un’affinità ideologica con gli Gnaw di mr. Dubin) e non certo con menù per famiglie, anche quando sembrano strizzare l’occhio all’ascoltatore e lasciare da parte, per un istante, la marcata propensione all’approccio atonale. Un album difficile, dunque, a tratti faticoso, di sicuro impegnativo e non immediato, eppure non si può che parlare di Old Earth in termini favorevoli e con piena soddisfazione, certi che la necessaria attenzione prestata nell’assimilarlo verrà ripagata una volta entrati nelle sue spire. Estremi per vocazione e non per posa.