DIGITAL PRIMITIVES, 26/2/2017

Area Sismica, Ravaldino In Monte (FC). Grazie ad Ariele Monti per le foto.

Uno dei momenti più belli e profondi dello splendido docu-film “Dal Mali al Mississippi”, della meritoria e famosa serie “The Blues” prodotta da Martin Scorsese, è quello in cui il cicerone Corey Harris, oramai alla fine del suo pellegrinaggio tra i luoghi delle dodici battute e dopo essere stato anche in Mali a trovare sua maestà Alì Farka Touré, incontra proprio in Mississippi (e dove se no?) Othar Turner, suonatore provetto di fiffaro (un piccolo flauto di bambù in inglese conosciuto come “fife”), oltre che  vero e proprio archivio vivente della tradizione delle fife & drums, band di blues che battevano le zone della musica del diavolo già negli anni Venti del Novecento.

Ascoltando “Otha”, è lampante la radice africana di questo suono, il ponte che lega il suo blues a quello di Touré, che non a caso aveva lavorato anche con Ry Cooder, uno che in queste paludi sguazza da sempre. Il blues è dunque primitivo, è la risposta ad ogni domanda (da dove veniamo? Dove andiamo?) ed è ovunque, dal Mali al Mississippi appunto. Ad esempio nel piccolo flauto di bambù, guarda caso, di Cooper Moore, il leader del trio Digital Primitives, che ha fatto tappa ad Area Sismica durante un lungo e serrato tour europeo che si è concluso in Israele, patria del sassofonista Assif Tsahar. A completare l’organico Chad Taylor, conosciuto soprattutto per essere il motore ritmico delle varie incarnazioni della creatura Chicago Underground di Rob Mazurek.

Mi aspettavo davvero molto da questo concerto, e devo dire che sono rimasto parzialmente deluso. Il nome della band, bellissimo, prometteva futuri ancestrali e incroci tra memoria e nuove prospettive, invece, durante la performance, l’ago della bilancia si sposta decisamente verso il passato, verso il delta del grande fiume: verso il blues. Il fulcro dell’azione è in mano al settantenne Cooper Moore, aria molto seria, seduto a imbracciare i suoi strumenti auto-costruiti: il diddley-bow, uno strumento ad una corda che fa le veci di un basso e viene suonato tenendolo sulle ginocchia e percuotendolo con una bacchetta da batteria, il mouth-bow, stesso principio ma con un’estremità messa in bocca e l’unica corda suonata con l’archetto per modularne il suono, e poi una sorta di liuto a tre corde dal suono ipnotico e straniante che sa di deserto e di oasi, oltre al già citato fife. I pezzi sono delle jam che ruotano attorno alle esplorazioni sciamaniche di Moore, mentre Taylor punteggia le evoluzioni innestando cadenze funk crude ed orgiastiche, dando però l’idea di essere un po’ perso a volte, mentre Tsahar difficilmente lascia tracce molto significative di sé, restando a metà del guado tra idee melodiche abbozzate e contrappunti che non danno abbastanza respiro al set. Solo nel momento dell’assolo, dove si getta in un vortice di respirazione circolare, il musicista israeliano riesce ad emozionare, anche se va detto che il vostro cronista reagisce in maniera molto diversa dalla stragrande maggioranza del pubblico, che in realtà si mostra entusiasta. Per chi scrive il momento più riuscito del live è una cover di Billie Holiday eseguita in duo da Moore e Taylor, col primo al piffero di bambù e Taylor al rullante. Otha Turner avrebbe sicuramente apprezzato. Bello anche il pezzo in cui Taylor si cimenta alla kalimba, mentre in alcuni frangenti affiorano francamente stanchezza e maniera. Ma coviamo la ragionevole speranza che al prossimo incontro con i Primitivi Digitali la meraviglia e la bellezza si manifestino ancora.