CHEETAH CHROME MOTHERFUCKERS, Antonio Cecchi

I C.C.M. (Cheetah Chrome Motherfuckers) rappresentano da sempre il nome di culto dell’hardcore italiano, quello di cui i frequentatori casuali sanno di meno, quello che non ha riempito le bocche dei musicisti rock o dei tuttologi, ma che si è saputo scavare una nicchia profonda nel cuore di chi ha amato e ama tuttora quella scena e quel periodo speciale. Questo, anche perché i C.C.M. sono sempre stati restii a rivangare il passato con ristampe e biografie postume, il che da una parte li ammantava di una sorta di alone di mistero, dall’altra costringeva i fan ad una ricerca estenuante e spesso costosa in termini monetari. Proprio per evitare speculazioni e bootleg, si è finalmente arrivati ad una raccolta ufficiale in uscita per Area Pirata Records e, in contemporanea, all’interessante libro dello storico bassista/chitarrista Antonio Cecchi: No More Pain, che ci permette di avere un punto di osservazione autorevole e privilegiato per ripercorrere una delle pagine più eccitanti e importanti della nostra scena hardcore. Non potevamo resistere alla tentazione di farci dare qualche informazione in più dallo stesso Antonio.

Iniziamo da come sei entrato in contatto con il mondo del punk e cosa ti ha spinto a diventare parte attiva della scena. Cosa ricordi dei tuoi primi passi?

Antonio Cecchi: Occorre tenere presente che stai parlando con una persona nata nel 1959, che quindi nel ‘77 – data in cui viene ufficialmente inventato il termine Punk”- aveva già diciotto anni (ahimè). Io ho sempre ascoltato musica “dura e veloce” “from the other side of the fence”, per dirla con Beefheart. Quando sentimmo quella parola, io e miei amici dell’epoca conoscevamo già Stooges, MC5 e altre creature simili da diversi anni. Le mie copie dei vinili di Funhouse e di Raw Power – per dire i primi titoli che mi vengono in mente – me li portò un amico di ritorno dagli USA. Qua da noi circolava la loro leggenda, ma i dischi erano semplicemente introvabili. Il caso volle però che nel 1978 io incontrassi creature simili a me, addirittura nella mia stessa città. Formare una band venne assolutamente naturale…

L’hardcore italiano è stato in grado di lasciare un’impressione profonda nell’immaginario di riferimento a livello mondiale, tanto che molti musicisti internazionali citano la nostra scena come una delle più influenti. A cosa credi sia dovuta questa capacità di superare i confini nazionali in un’epoca in cui ancora non esisteva internet?

Mentre in genere mi dissocio dal termine “Punk”, inventato a tavolino da McLaren e da altre centinaia di persone in tutto il mondo alla ricerca di una nuova moda da imporre alla grande massa, mi riconosco invece appieno nel termine “hardcore”, anzi, sono orgoglioso di aver fatto parte di una delle band “etichettabili” con quel termine. In realtà, poi, noi amavamo definirci “Ultracore”, proprio per quella indelebile diffidenza verso etichette/marchi/mode. Sostanzialmente concordo con le parole di Silvio Bernelli, quando afferma che “l’HC italiano fu una scuola di musica a livello mondiale”. Le nostre band non suonavano come nessun altra in tutto il pianeta, e per una volta almeno noi, ai margini dell’Impero Cultural Musicale di lingua Inglese, potevamo dire la nostra senza tema. Avevamo una nostra identità ben precisa, stile da vendere, creatività ed onestà tutte italiane. Sebbene non esistessero gare o classifiche, le band italiane erano fra le migliori del pianeta. Ma non vorrei essere frainteso: non lo dico con superbia, ma con la modestia di chi si è ritrovato a vivere una situazione del genere. L’eco dei nostri brani si è spento trent’anni fa e siamo ancora qui a parlarne. Segno che forse abbiamo realmente suonato qualcosa di diverso da ciò che c’era stato prima. Nel solco di Iggy e degli altri? Magari!

In Italia il Granducato Hardcore ha poi rappresentato un’esperienza fondamentale per delineare le coordinate dell’intera scena, un risultato non scontato e in qualche modo inaspettato. Cosa puoi raccontarci di quell’esperienza e dei suoi protagonisti?

Anche il GDHC fu la naturale conseguenza di quegli anni: unirsi, fare forza assieme per guadagnare potenza, ma anche per non sentirsi del tutto emarginati! Alcune delle persone coinvolte, poi, non venivano da Firenze o Pisa, ma magari da piccoli paesini sull’Amiata o spersi sull’Appennino. Per tutti loro, per noi tutti, era il modo migliore di esistenza possibile. Adesso si è in contatto in tempo reale, al tempo lo si era unicamente se ci si vedeva di persona. I “protagonisti” di allora, salvo alcune rare eccezioni e diversi – ahimè – scomparsi troppo repentinamente, fanno le stesse cose di allora. La cosa bella è che ci sono anche alcune altre belle realtà che funzionano meglio di allora, tipo Area Pirata Records, o la trasmissione radio di Heintz Zaccagnini Friday Extreme Rock Adventures (www.garageradio.it). Oppure anche Ribelli a Vita, la logica modernizzazione di quella che fu Brains Out fanzine (http://ribelliavita.blogspot.it/2017/01/recensione-less-than-jake-sound-alarm.htmlIn ). Il GDHC, per molti versi, è ancora bello vivo e vegeto!

Continuando in questo gioco di scatole cinesi arriviamo ai C.C.M., una band unica e da sempre ammantata da un alone di culto, vuoi per il suo essere realmente radicale, vuoi per la relativa difficoltà di reperire materiale postumo, fossero biografie o raccolte. Cosa ti ha spinto a rimettere le mani a questa storia e a condividerla finalmente con chi se l’è persa al tempo?

CCM è sempre stata un’entità unica, con un solo spirito e una sola anima. Le decisioni venivano sempre prese di comune accordo, quasi come in una “Comune” di intenti e volere. Al momento della scissione, e negli anni successivi, vi fui chi si oppose fermamente ad una ristampa dei materiali. Ed io stesso ne ero ben poco convinto. Ma circa venticinque anni dopo, l’incontro con il caparbio Tiziano di Area Pirata, mi mise di fronte ad un dato di fatto: erano iniziati ad uscire bootleg dei nostri ep oppure, ancora peggio, venivano battuti a centinaia di Euro su e-Bay! Tutto ciò era intrinsecamente disgustoso, nonché contro ogni cosa avessimo fatto prima di allora e, sebbene ogni brano si trovasse gratis on line, la gente continuava a buttar via soldi comprando addirittura dei fogli-scaletta dei nostri gig che qualcuno aveva tirato fuori da chissà dove (personalmente, ne ho regalati alcuni a Giorgio di LoveHate80, ad esempio). Così, il buon Tiziano ha iniziato a mediare fra le varie teste calde del gruppo, finché tutti hanno dato l’okay e si è deciso di ristampare il tutto. Con una piccola label, con l’autoproduzione, con prezzi contenuti  (proprio come ai tempi del GDHC) Ho scoperto di essere in debito non solo con i miei compagni nell’avventura CCM, ma anche con Tiziano e Iacopo di AreaPirata: se non fosse per loro tutto questo non sarebbe MAI accaduto!

A febbraio 2017 usciranno un doppio lp (W il vinile! Sempre!) e un doppio cd con un brano inedito, per me uno dei migliori di sempre, anch’esso saltato fuori dal nulla grazie ad un altro amico – Stefano Ballini di Trippa Shake Fanzine, all’epoca diciottenne – che lo registrò con un walkman durante il nostro ultimo show al Casalone di Bologna. Anche a Stefano devo tantissimo: mi ha dato nuovamente la possibilità di rivivere quegli ultimi, dolorosi attimi con CCM. Vorrei inoltre precisare che il mio libro risale invece ad almeno quattro anni prima dell’uscita di questo disco. Lo avevo però “congelato” in un cassetto, convinto che alla fine non importasse poi così tanto a nessuno. Anche qui, l’incontro con Heintz, Ricky Signorini e Roby Noise (che ha curato gratis tutto l’aspetto grafico, come ai bei tempi delle fanzine) è stato fatale per renderlo disponibile per chiunque voglia sentire la mia storia all’interno della band.

Di recente, parlando con alcuni amici inglesi e tedeschi ho scoperto che i C.C.M. sono riusciti a lasciare un ricordo indelebile anche fuori dai confini nazionali, soprattutto per l’approccio privo di timori reverenziali nei confronti delle realtà estere e più conosciute. Da cosa era determinato questo modo di porsi, quanto eravate consapevoli delle vostre potenzialità e del vostro ruolo? Quando si parla di C.C.M. non si può non pensare ad un immaginario ruvido, violento, quasi ostile. Ti riconosci in questo o ai tuoi occhi è un’immagine ingigantita dal passare del tempo?

Credo fosse semplicemente il nostro modo di essere. Hai utilizzato un ottimo aggettivo, “ruvido”: CCM non era una band di “bravi ragazzi” amati da tutti, quanto un combo di personalità che spesso non risultavano neppure troppo simpatiche. Sono però orgoglioso del fatto che abbiamo sempre dato il massimo a tutti coloro che sono venuti a vederci. Ricordo gig suonati con un dito steccato, ad esempio, oppure con Syd che sanguinava dalle botte prese/date prima di salire sul palco. O ancora, dopo aver fatto centinaia di km e sapendo che non ci aspettava alcun tipo di rimborso spese. Salivano là sopra e spingevamo l’acceleratore al massimo. Credo che la gente lo percepisse. Per inciso, non eravamo gli unici a farlo. Le band hardcore della mia generazione – quelle di cui si parla ancor oggi – erano tutte così. Aggiungo che non avevamo timori reverenziali perché non faceva parte del concetto di band hc. Si è sempre trattato di un genere musicale paritario, in cui – per dirne una – il pubblico saliva sul palco e faceva stage diving. Lo hai mai visto fare con un’altra colonna sonora?

La scena hardcore italiana è sempre stata caratterizzata da un approccio decisamente politico in cui spesso la musica era solo uno degli aspetti di un tessuto connettivo fatto di centri sociali, ‘zine, manifestazioni, azione diretta. Quanto di questo era parte anche del vostro essere e quanto credi sia rimasto negli anni?

Noi eravamo a tutti gli effetti una band politica. Lo era il nostro modo di porci, i nostri vestiti, i nostri testi… Negli anni lo spirito è rimasto quello, come testimoniato da chi ancora si sbatte come allora per mandare avanti spazi sociali fuori dagli schemi, o programmi radio, o ancora blog (che altro non sono che fanzine elettroniche).

Il tuo libro pareggia finalmente i conti con tutte quelle realtà di cui abbiamo avuto modo di leggere nel corso degli anni, quali dei vostri compagni di avventura ricordi ancora con piacere e quali le band italiane e straniere cui eravate più legati?

Sono legato in modo indissolubile a tutti coloro con cui ho suonato assieme, nelle mie due band di riferimento (CCM e Testemarce). I nomi che mi vengono in mente (per l’Italia) non possono non essere che Negazione, Indigesti, Kina, IRI!, Lanciafiamme, la lista è lunghissima.

Sei rimasto in contatto con i tuoi vecchi compagni di viaggio? Cosa è successo dopo lo scioglimento dei C.C.M., vi siete tenuti in contatto o ciascuno è andato per la sua strada?

Siamo tornati in stretto contatto al momento in cui abbiamo deciso concretamente di ristampare la nostra musica, per dare la possibilità a chi non l’aveva mai sentita prima di farlo adesso. Con alcuni compagni di strada ci siamo visti quasi quotidianamente, con altri invece siamo separati dall’Oceano Atlantico, oppure da antichi dissidi mai sanati.

Inutile chiederlo, ma ci provo ugualmente. Avete mai pensato ad una reunion anche estemporanea? Cosa vi ha tenuti lontano finora dall’idea di calcare nuovamente un palco fosse anche per una serata?

Trovo impensabile una reunion, per mille motivi, come spiego nel mio libro… aggiungo che neppure volendo potremmo farlo, in quando Ale Fantinato vive a Vancouver e manca dall’Italia da un decennio.

Grazie mille per il tuo tempo e la tua pazienza. Un’ultima curiosità: cosa porti ancora dentro di quell’esperienza e in che modo ha permeato il tuo modo di essere – se lo ha fatto – nella tua vita successiva?

Guarda, scrivendo il mio libro, ma soprattutto incontrando amici vecchi e nuovi alle mie presentazioni in giro, mi sono reso conto che il nome CCM non solo me lo porto tatuato addosso, ma anche nel più profondo della mia anima. Come ho scritto nel libro, ho avuto l’incredibile fortuna e l’onore di incontrare fratelli di sangue (io che nella vita civile sono figlio unico) con cui ho condiviso un’esperienza incredibile. Non smetterò mai di ringraziarli, uno per uno, ognuno per un motivo diverso.