ALBERTO BOCCARDI

Alberto Boccardi

Negli ultimi tempi non lo fa capire solo Wire, che ha ospitato Alberto Boccardi sulla propria compilation periodica di musica underground: la galassia elettronica/sperimentale italiana gode di ottima salute. Alberto ha pubblicato un buon disco quest’anno e anche da lui ci aspettiamo giusto quel gradino di maturazione in più che gli tolga dai piedi paragoni lusinghieri e scomodi. In quest’intervista si mostra una persona entusiasta e carica di energie positive, quindi le potenzialità per crescere ci sono tutte.

Quando hai deciso che, dopo essere stato parte di progetti collettivi, avresti pubblicato qualcosa con sopra il tuo nome e cognome?

Alberto Boccardi: Se da un lato avevo bisogno di solo suono, e quindi di una pausa dal progetto audiovideo anyBetterPlace che condividevo con Enrico Venturini (autore anche dell’artwork dell’album), dall’altra sentivo di aver raggiunto la consapevolezza che era possibile fare qualcosa di personale.  E c’era anche una parte di me che in qualche modo era pronta nel caso avessi trovato tutte le porte chiuse.

Ci racconteresti, per favore, la storia che sta dietro all’artwork o ci daresti un suggerimento per interpretarlo?

Quell’immagine è venuta prima del suono. In una moltitudine di scatti fatti con un amico, Nicola Frau, in una delle tante zone periferiche industriali di Milano, quello era l’unico privo di capannoni e spazi abbandonati. È stato un caso, un momento fortuito, ma poi ho capito che c’era tutto quello che volevo: la terra; ed io che la pregavo.

La semplicità di un prato di fiori di colza era la forza di quella foto.

Tim Hecker, Fennesz, Ben Frost, Jesu, Aidan Baker. Come ce lo vedi il tuo cd nello stesso scaffale dove metto loro?

Un onore. Mi hanno aperto la testa, la pancia e il cuore. Mi ricorderò sempre il primo concerto di Ben Frost che vidi anni fa ad Audiovisiva in un palazzo del ghiaccio completamente deserto. Una rivelazione assoluta. Anche in quel caso pensai che la semplicità fosse la sua forza. In quel momento sul palco non c’era altro che lui e il suono; questa totale identificazione di quello che fai arriva dritta a chi sta guardando. Senza filtro, anche in un’immensa piazza deserta puoi parlare all’orecchio di una persona. Per questo motivo amo la parte live più di ogni altra cosa, e la relazione con il pubblico è lo strumento mancante che non potrò mai portarmi dietro. Le persone sono parte del concerto come lo sono la chitarra, il synth, i pedali o altro. Percepisco immediatamente la qualità dell’ascolto, che condiziona tutto quello che suono.

Nei dischi d’impronta ambient, la voce può divenire un suono/strumento da confondere negli altri, può essere uno spoken word, mentre è più difficile usarla per cantare. Come avete lavorato assieme tu e Cinzia Delorenzi per le tre tracce dove lei appare?

Cinzia non solo è tra le più brave coreografe italiane, ma è anche una donna dotata di una sensibilità straordinaria. Tutti i progetti artistici, nella danza o nella musica, che ci hanno uniti sono sempre partiti dalla condivisione di un immaginario astratto, di suggestioni effimere che però ai nostri occhi e orecchi diventavano subito concrete. Penso spesso a come sia pazzesco dialogare in un territorio dove non ci sono né danza né musica mentre facciamo danza e musica.
Ho imparato moltissimo musicalmente dalle immagini dei suoi corpi in movimento, sempre in quel processo di ricerca della semplicità e della profondità, nell’ascolto e nella fiducia della “follia”.

Alberto Boccardi

Non riesco ad afferrare tutto quello che dice, ma nelle parole di Cinzia sparse per il disco ci sono i titoli delle tracce? L’album, dunque, racconta un’unica storia?

Fabrizio ti ringrazio moltissimo perché sei la prima persona che mi ha fatto questa domanda. Cinzia è sempre presente nell’album: a volte canta, altre parla oppure ascolta nel silenzio.
Il flusso sonoro si snoda imprevedibile, s’interrompe bruscamente per poi proseguire nella stasi, si placa per tornare violento. Non ci sono riferimenti, ma l’album è il tentativo di ricreare una serie di specifici stati d’animo. Titoli, testo e musica sono esperienze di questi ultimi due anni di vita.

Com’è nata l’idea di introdurre un sax in “Clocking The Time”? Qualcosa di spontaneo o di ispirato da qualche tuo ascolto? “Rumore e jazz” è un’accoppiata che negli ultimi anni sta un po’ salendo in superficie…

Mi piace lavorare con altri musicisti e con strumenti che non uso, ma le cui sonorità mi affascinano.
“Clocking The Time” è nata dalla collaborazione con Luca Rampinini in un precedente bellissimo progetto con anyBetterPlace. Ci siamo ritrovati entrambi curiosi di sperimentare e di confrontarci in territori dove non eravamo (e non siamo) esperti; penso che ci sarà spazio per altro in futuro.
Comunque l’utilizzo di fiati in ambito noise/sperimentale non è una novità, ma forse c’è ancora spazio per essere esplorato, come hanno dimostrato i Wolf Eyes a Milano mercoledì scorso, in una “sotterranea” seconda parte del concerto.

Sarà che pochi giorni fa ho intervistato anche Attilio Novellino, ma io vedo un bel movimento in Italia quando si arriva a suoni ambient/sperimentali. Silentes, Boring Machines, Fratto9, Afe… Tu che idea hai a riguardo?

Assolutamente vero. Credo però che il discorso sia più ampio e possa abbracciare tanti generi underground. Nella mia piccola esperienza all’estero ho trovato moltissimo interesse per la scena italiana; sicuramente per merito di musicisti emigrati tanti anni fa (Orsi, Rocchetti…), o per gruppi che da molti anni girano l’Europa e alcuni anche l’America in tour: Ovo, Zu, Father Murphy… Ma quanti musicisti bravi ci sono in Italia? Tantissimi!

Non sono un tecnico. Ho notato che negli ultimi anni, per il mastering, certi gruppi metal vanno da James Plotkin come si andrebbe dall’eremita in cima al monte, mentre molti musicisti sperimentali vanno da Giuseppe Ielasi. Qual è la “magia” del suo intervento?

Giuseppe è un grandissimo musicista con una notevole sensibilità, inoltre ha molta cura per il dettaglio sonoro e un ascolto controllato. Mi ricordo che durante il master mi scriveva che in alcuni pezzi la “spinta” era sufficiente, di non voler esagerare, ma io avevo bisogno di avere la percezione che in certi punti le casse esplodessero e di arrivare alla rottura; bene, lui c’è riuscito perfettamente.

Vorrei anche ringraziare il fondamentale lavoro di registrazione e di mixaggio di Lorenzo Monti nella natia Morbegno in Valtellina, dove torno molto poco, ma che forse in qualche modo ha funzionato come richiamo della terra.

Sei parte di un progetto che unisce musica e immagini. Per questo ti chiedo se porterai il tuo solista live e se ci sarà una controparte visiva.

Ho fatto parecchie date negli ultimi quattro mesi e spero di farne ancora; ma è dura, non solo per i soldi ma anche per gli spazi che spesso non rispondono se non hai qualche contatto diretto.
Per tanti anni ho lavorato e lo faccio tuttora con l’immagine; in questo progetto c’è solo il suono però, anche perché penso che l’immagine tolga concentrazione all’ascolto. Un progetto audio è solo audio, non audiovideo. Al massimo mi è capitato di usare un paio d’immagine statiche durante i miei set, ma solo per una maggiore immersione nell’ascolto.

Fabrizio, non posso chiudere senza un sincero ringraziamento a Gianmaria e alla Fratto9 per aver creduto in questo progetto. Forza!